«Acchìo! Acchìo il limóe!». Zeno voleva una fettina nel suo Crodino «come i gàndi», che bevevano Corona con il sale e il lime. La premette dentro il collo della bottiglietta smerigliata, bevve due sorsi e poi la mollò sul tavolo, come tutto il resto. La tovaglia di limoni cerati era un cimitero di biscotti mangiati per metà, pastelli abbandonati, il tappo di una bottiglia di candeggina. Alessandra, sua madre, era fuori a leggere sulla sdraio.

«Sei l’unica a comprare ancora i giornali di carta», le fece Michele. Lei non disse nulla, alzò gli occhi e li riabbassò subito sull’intervista a Laura Morante. Michele era detto da Zeno “il Babysitter”, anche se, in quattro anni, l’aveva visto pochissimo. «Ciao Bebisìtter», ridacchiava il bambino, e poi correva a nascondersi dietro la siepe. «Ale, apri la canna per favoreee?». Marina, sorella di Alessandra, urlò dall’orto. Giovanni, il compagno del Babysitter («Devi dire “mio marito”», ripeteva Alessandra a Michele dal giorno della loro unione civile), stava togliendo le erbacce che infestavano le zucchine trombetta. Quei tre giorni lontano dalla città, con gli amici e i cani, erano belli e fragili, poteva saltare tutto in un secondo.

Alessandra sapeva di poter ricevere una brutta notizia da un momento all’altro, Marina aspettava un messaggio che le era puntualmente negato («È proprio una stronza»), Michele e Giovanni cercavano il vuoto dopo settimane che traboccavano di impegni, di incontri, di tutto, e quel vuoto non si trovava mai. E poi c’era Federico, che andava e veniva con la sua furia giovane, «a cena dovrebbe esserci», diceva Marina, ma poi non lo sapevi mai, lo scoprivi quando l’ora di cena era già arrivata.

La villa

I genitori di Marina e Alessandra avevano comprato quella villa in campagna, duecento metri quadrati di casa e seicento di giardino, a un’asta. «Era un affare», ma tutti quelli che avrebbero dovuto usarla la lasciavano perlopiù chiusa.

Il dromedario di ghisa sopra il camino rivelava la polvere di sei mesi buoni. Ora c’era l’estate, c’erano i mirtilli e le albicocche da raccogliere («La metà son già cadute, tutte marce...», lamentava Giovanni), c’era l’afa come in città, che non si capiva se bisognava stare dentro oppure fuori. «Stasera ceniamo vicino all’orto? Sposto io il tavolo», buttava lì Michele. Ma nessuno rispondeva, e alla fine si restava sotto il portico, come sempre.

«Io ho un amico qui», disse Zeno al Babysitter.

«Ah sì? E chi è...»

«Picàllo».

Michele scoppiò a ridere.

«Picarlo?»

«Sì. Picàllo».

«È un nome strano…».

«Abita qui».

«Dove?»

«In fondo alla stàda».

«In una villa come questa?»

«No, in un appattaménto».

Michele restava ogni volta stupito dalla quantità di parole che conosceva Zeno, e che usava con accuratezza e coscienza. «Povero Picarlo. È brutto vivere in un appartamento, quando hai tutta questa campagna.»

«Picàllo è mio amico.»

«Sì. Un giorno me lo fai conoscere?»

E la piscina?

Zeno ridacchiò, e corse a nascondersi dietro la siepe. Alessandra chiuse la sua rivista. «Ci vorrebbe la piscina... che senso ha una casa qui senza la piscina?». Ma nessuno raccoglieva nemmeno quel discorso, restava lì nell’aria. E la piscina, dopo anni, ancora non si era vista. «Da piccolo andavo a nuotare in una piscina a forma di goccia», disse Giovanni, tornato dall’orto con le uniche due zucchine spuntate.

«Negli anni Ottanta tutte le piscine erano a forma di goccia», commentò Alessandra. «Il custode della casa dei vicini, vicino a Reggio, mi faceva entrare di nascosto quando loro non c’erano. Nuotavo dieci minuti, ed erano i dieci minuti più belli di tutta l’estate. Fai trenta, dai. In un’estate intera, era il momento più bello, bellissimo... vivevo tutto l’anno per quella mezz’ora».

«Ci sono anche quelle che non devi interrare... di piscine, intendo», ripeté per la terza (quarta?) volta in due giorni Alessandra con la voce un po’ più alta. Ma Marina aveva iniziato a tagliare i pomodori (della Coop, quelli dell’orto non erano ancora pronti) e non sentì. O, al solito, fece finta di non sentire. Federico alla fine arrivò.

Alle otto meno un quarto, con una bottiglia di falanghina e il coriandolo. «Non si possono fare quei tacos senza il coriandolo». La sera prima avevano detto – chissà poi chi – «domani con il pollo facciamo i tacos», ma poi si erano dimenticati anche di quello. Invece Federico, nel suo ordinatissimo disordine dei vent’anni, prima di rientrare aveva fatto il giro dei supermercati della zona (il coriandolo nell’orto non era stato nemmeno piantato, figuriamoci), ed eccolo qui col suo mazzetto odoroso. «Coronita? Il lime c’è?». Si preparò la sua birra, e si mise su una sedia sotto il noce. «Certo che se ci fosse la piscina…».

Il gelato

Il mattino dopo il cielo era grigio. «Che palle», sbuffò Michele guardando fuori dalla finestra. Il vuoto si era di nuovo riempito. Di nuvole, di una minaccia di temporale. Si sciacquò la faccia e andò fuori nel portico. Zeno stava mangiando un gelato alla banana. «Ma sono le nove e mezza…», disse il Babysitter. «Lascia stare, è il secondo», replicò Alessandra scrollando Instagram. A cercare bene, sul tavolo si vedeva lo stecchino del precedente, come una mezza croce di un’ennesima tomba. Alessandra non aveva ricevuto la brutta notizia, a Marina non era arrivato il messaggio atteso. Federico era già scappato, «si era dimenticato di una gita con degli amici al fiume». «Come ci si può dimenticare di una gita», pensò Michele, e andò a farsi un caffè.

«Ciao Zeno».

«Ciao».

Zeno aveva mollato chissà dove (sul tavolo non c’era) il secondo stecco di gelato, in mano adesso reggeva una bottiglia di Pronto Legno Vivo. «Cosa fai?», gli chiese Michele.

«Le pulissìe».

«Allora oggi viene Picarlo?»

«Oggi no cè...»

«E dov’è andato?»

«Via».

Il guru

Marina ricevette un altro messaggio, ma non quello che si augurava. Il messaggio veniva da una vicina di casa, da un’altra villa tre civici più indietro. «Oggi facciamo un esercizio di respirazione yoga... cioè non proprio yoga, dopo ti spiego. Vieni?». «Ci sono anche degli amici». «Venite tutti! Meglio se siamo in tanti!!!» (emoji di faccina con occhio aperto, occhio chiuso e lingua di fuori).

Seguiva il nome del guru che teneva la lezione (via Zoom, come tutto ormai) e il link per registrarsi alla sua piattaforma. La proposta fu accolta con giubilo da tutto il gruppo. Un programma per il pomeriggio! Che evento insperato! Anche Michele e Giovanni s’erano quietati: era un’altra cosa che riempiva il tempo, ma per svuotarlo. Le nuvole s’addensavano dietro la chiesa. «Ha detto che sarebbe bello farlo all’aperto, ma vediamo…», diceva Marina a proposito di quello che le aveva scritto la vicina. Arrivarono a casa di Magda, così si chiamava la padrona di casa (anche quella senza piscina), arrangiati come potevano.

Marina con un vero tappetino da yoga, Michele e Giovanni con un telo di spugna da condividere. Alessandra era rimasta sotto il portico con Zeno (terzo gelato alla banana?). Federico era ancora al fiume (chissà se sarebbe tornato per cena).

La connessione traballava, «no, aspetta, spostalo più in là», diceva Magda allarmatissima, mentre cercava il punto migliore dove piazzare il Mac. «Com’è che si chiama questa respirazione?», domandò Michele. Giovanni rispose, con già gli occhi chiusi. Un’assistente del guru, nel suo inglese squillante, introdusse la lezione: «Oggi, come ogni giorno, dobbiamo essere grati per tutto quello che abbiamo. Ripetiamo insieme: I love my life, I love my life, I love my life…». Lo fecero tutti, senza sentirsi cretini o forse sì. Il cielo era nero, oltre la collina. «Continuiamo dentro?», propose Magda. La processione, tappetini e teli appallottolati in mano, s’incamminò verso la veranda. «Qui il wifi prende anche meglio».

La lezione durò una quarantina di minuti. Occhi chiusi, occhi aperti, ooommmmm, mani giunte chi voleva. I love my life. Anche Marina, pure se non aveva ricevuto il messaggio di quella stronza. Anche Michele e Giovanni, anche se non riuscivano a svuotare la loro vita troppo piena. Anche Alessandra, che aspettava la brutta notizia nell’altra casa, sfogliando l’ultimo giornale di carta dell’umanità. Anche Zeno, che probabilmente stava pulendo un angolino di pavimento appiccicato di crodino. Michele riaprì gli occhi. Il cielo era sgombro, il prato aveva ripreso a dare la sua luce verde. Ma c’era qualcosa là in fondo, accanto al ciliegio. Forse era tornato Picarlo.

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