Quando si parla di un libro importante recuperato dal passato, specialmente se in quel passato è radicato sia nella trama sia nell’atmosfera prevalente, si corre sempre il rischio di giudicarlo sotto il velo di una forzata contestualizzazione, riducendo il suo valore stilistico e di pensiero alla contingenza di un punto preciso nello spazio-tempo.

Ma la vera letteratura esiste al di là della cronologia, di dove e quando avvenivano le ore di stesura. Così, ad esempio, il primo romanzo del mondo, La storia di Genji di Murasaki Shikibu, risulta bello anche senza sapere che è stato scritto nell’anno mille da una dama di corte confinata nel suo palazzo. Certo, sapere che la foga letteraria sua e di altre dame di corte ha proprio dato vita alla narrativa giapponese aggiunge valore storico e politico alla sua opera, ma non è questo a darle valore.

L’albero e la vite è stato scritto nel 1954 da Dola De Jong, nata nel 1911 ad Arlhem e americana di adozione: lì fu scoperta da Maxwell Perkins, l’editor che scoprì – per intenderci – Ernest Hemingway e Francis Scott Fitzgerald. E la sua è infatti una scrittura che scavalca i confini storici e geografici, che funziona oggi e funzionerà con ogni probabilità anche tra trent’anni, perché è limpida e assoluta, e percorre agilmente i paesaggi della psiche senza inciampare nell’artificiosità delle mode. La riscoperta di un libro straordinario pubblicato ora da La nuova frontiera.

Montagne russe

Il romanzo è ambientato nel 1938 ad Amsterdam, e narra del rapporto complesso e indefinibile tra due donne: Bea, riflessiva e razionale, pragmatica e portata a vivere con rassegnazione, e Erica, istintiva e viscerale, immatura, che vive la vita con superficialità e con una fame implacabile di stimoli e di intensità.

Le due non potrebbero essere più diverse, ma è proprio questa diversità a tenerle vicine: se Erica è legata alla natura salda e responsabile di Bea, Bea vede in Erica uno spirito indomabile e la forza vitale che lei non riesce a trovare in sé stessa.

Eppure, in un gioco di proiezioni, è in Erica che lei percepisce una carenza di vitalità: la vede come «un tronco senza vita, con le foglie soffocate dai tralci che gli si avvinghiavano tutt’attorno». In un instancabile tira e molla, le due si scambieranno quell’assenza di linfa tentando ognuna con i suoi strumenti di trovare la gioia, e trovando invece solo brevi montagne russe di eccitazione e cadute depressive.

Senza parole

«Troppa pressione, troppo di tutto. Mi stancai presto di acumulare impressioni da conservare», dice Bea di un viaggio parigino all’insegna del divertimento, in cui il suo ruolo pare però quello di occuparsi di finanziare il tutto e di seguire come un cagnolino la sua adorata che si invaghisce di altre donne più frivole.

Quella volta è il caso di Judy, americana che attrae Erica come un gioiello luccicante attrae una gazza, e quella luce scintillante – il glitter vacuo di un’infatuazione – irradierà il sentiero di quel viaggio, come ogni volta, eppure Bea resterà nei pressi di quella scia di luce perché non conosce altro modo per stare bene se non stare nella coda dell’occhio dello sguardo di Erica, senza mai fermarsi a chiedersi se sarà mai ricambiata: «Per potermi salvare dalla disperazione soffocante dovevo per forza restare in movimento», dice a un certo punto, e infatti la mappa dei suoi spostamenti coincide con quella del suo sentimento autodistruttivo e totalizzante, che nessuno dei personaggi oserà mai concretizzare in un «ti amo», salvo in una breve scena in cui intuiamo che sia avvenuto, ma l’autrice abilmente ci nasconde il contenuto esatto delle loro dichiarazioni, del loro tentativo di imbrigliare un sentimento che non tollera di essere verbalizzato, e nemmeno saprebbe come farlo senza errori.

In una zona grigia

Non è esattamente amore, infatti, quello che le lega in un rapporto lunatico e vischioso, o almeno è solo uno dei tipi di amore con cui, in assenza di parole più precise, tendiamo a definire i legami turbolenti e in ultima istanza insoddisfacenti che però non riescono a sfaldarsi, finché solo le circostanze della vita recidono ciò che altrimenti pare destinato misteriosamente all’eternità.

Il valore del libro risiede proprio nell’abilità straordinaria di De Jong di delineare un legame difficile da delineare, poiché si trova in una zona grigia del linguaggio, una nebbia di affetto inclassificabile, che non è tale solo perché nel 1938 non era immediato stabilire inequivocabilmente la propria omosessualità o bisessualità, ma perché la diversità sostanziale delle due donne le rende personaggi di un dramma che non abbiamo il vocabolario adatto per descrivere, e allora è tutto un gioco di tentativi – del lessico e del pensiero – fino al terribile finale in cui la morte pratica una cesura che la vita non era riuscita a praticare.

Un romanzo oscuro

Erica è infatti ebrea da parte del padre (nonostante un colpo di scena che non rivelo per non spoilerare), e ha una madre crudele che personifica l’orrore del tempo. Questo orrore si fa strada nella storia gradualmente, non come il tuono della testimonianza: è piuttosto un fiume tossico silenzioso, che scorre sotto le vite di due donne che hanno ben altro conflitto per la testa: «Per me è lì che iniziò la guerra, nella stanza di Erica», dice a un certo punto Bea, e infatti Erica – la lotta che ha in testa, che rende Bea più che vittima una martire consapevole – è il fulcro unico della storia.

Fin dal loro primo incontro a casa di un’amica comune (odiata da Bea per la sua superficialità, ma non da Erica), Bea assume il ruolo della balia che si prenderà cura per tutto il tempo di Erica, passando attraverso i suoi capricci e i suoi abbandoni, le sue pessime decisioni, senza mai un cenno di cedimento. Il quesito sulla natura del legame resta sospeso tra le pagine ma con leggerezza, per la consapevolezza che non è certo quello il problema del rapporto, ma un’incompatibilità di fondo.

Questo libro sottile e potente cattura perfettamente lo stordimento, la paura, e lo smarrimento di quel tempo, pur senza farne il tema del racconto: non è un romanzo sul nazismo, è un romanzo intimo in cui il terrore della deportazione si insinua lentamente senza mai prendere realmente la scena, se non sull’orlo del triste epilogo.

È un romanzo oscuro la cui oscurità è prima di tutto personale, domestica, sentimentale. In una casa fatta da due stanze, di cui una a lungo privo di letto (per via della povertà di Erica), si consumano turbamenti e quesiti senza risposta.

Mi vengono in mente altre grandi scrittrici che scrivono durante il nazismo ma non ne fanno il fulcro della loro opera:  Nelly Sachs e Hilde Domin. Quest’ultima, poco conosciuta in Italia, ha una scrittura lapidaria e di una precisione preziosa. E così è anche quella di Nelly Sachs, e di certo anche quella di Dola De Jong, come se il peso mortale della Storia, le sue tragedie, in qualche modo abbiano filtrato la lingua stessa, rendendola specchio terso e traboccante di verità.


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