Nel suo dizionario tedesco-arabo, che passa per essere il miglior dizionario di arabo in qualsiasi lingua, Götz Schregle alla parola Macht fa corrispondere non meno di quindici equivalenti in arabo moderno, ossia: qudra ‘alâ, maqdirah ‘alâh (zu etw.), itâqah, tâqah (Vermögen), quwwah (Kraft), shawkah, hawl, tawl (eines Landes), su’dad (e-r Klasse, classe, e-s Herrschers), sultah (Machtbefügnis), nufûr (Einfl uss), hukm (politisch) potere di giudicare, dawlah (Staat), sawrah (des Alkohols), sultân (einer Idee). Risparmiamo i dettagli. Queste parole coprono un ampio spettro di significato, dalla capacità di agire alla forza, l’influenza, la competenza giudiziaria, l’autorità, il dominio, passando per la potenza (dunamis) che i filosofi contrappongono all’atto.

Per farla breve, sempre restando al livello della lingua, c’è una formula che riassume il concetto islamico di potere: «Non c’è forza e potenza se non in Dio!» (lā hawla wa lā quwwata ilā bi-Llah). Compare nel Corano (XVIII, 39). La formula completa, che ho citato, si trova in una dichiarazione (hadith), messa in bocca a Maometto, e a lui attribuita da Bukhari, uno dei due tradizionalisti musulmani più autorevoli. È diventata una di quelle formule stereotipate, rituali, per le quali l’arabo ha forgiato un termine: la hawqala, così come si parla della basmala (“In nome di Dio il clemente il misericordioso”) o della tasliya (“Che Dio preghi su di lui – l’Inviato (Maometto) – e gli dia la perfezione”). Tali formule, del resto, sono un po’ come il nostro “grazie a Dio” che può pronunciare macchinalmente anche il più incallito degli atei.

In realtà quel che conta è il contesto, che va oltre il senso immediato. Ad esempio, Allahu akbar ha letteralmente lo stesso contenuto del Deus semper major che Ignazio di Loyola aveva scelto come motto, ma le circostanze effettive del suo utilizzo gli danno il senso di “all’attacco!”. Nella formula che concede a Dio il possesso esclusivo del potere, la connotazione è quella della disperazione, della constatazione del fallimento delle forze umane nel padroneggiare gli eventi.

Ma la formula è ambigua. La preposizione bi- può significare “in Dio”, ma anche “per mezzo di Dio”. In un certo senso, il problema è tutto qui: come può esserci nel mondo creato un potere diverso da quello di Dio? E, nel caso in cui tale potere esistesse o, più positivamente, poiché bisogna pure che esista, come si articola sul potere di Dio? Non può essere questione di un potere concorrente a quello di Dio, come nel dualismo manicheo che ammette, secondo la formula rabbinica, “due poteri nei cieli” (šney rešuyot baš-šamayim). Il nome che lo designa in arabo, zandaqa, ha finito per designare ogni forma di miscredenza.

Il “monoteismo”

A questo punto bisogna introdurre una distinzione fra i presunti “tre monoteismi”. Certo, essi affermano unanimemente che c’è un solo Dio. Ma si distinguono nel fatto che ciascuno ha un modo proprio di rispondere alla domanda: il solo a fare cosa? O, se si preferisce, di collocare l’unicità di Dio e l’attività attraverso la quale la manifesta, e che Egli è il solo a esercitare.

Per la religione di Israele, l’unicità di Dio è affermata un’unica volta nella Torah, come fa osservare Maimonide, ed è nel riassunto della sua confessione di fede, il famoso Shema’ (Deuteronomio, 6,4). Dio è per Israele l’unico oggetto del suo amore (ahava), termine che designa, più che un sentimento, l’attaccamento del servitore al padrone. L’unicità del destinatario del servizio è affermata nei dieci comandamenti (Esodo, 20,3). Per i profeti, Dio è percepito come unico, più come soggetto agente che come oggetto di un culto esclusivo di adorazione. Il Dio d’Israele è in fondo l’unico attore reale della storia, e di una storia che è quella della fedeltà di Dio alla sua alleanza. L’idea è potentemente orchestrata dal Deutero-Isaia dove Dio dice: sono io che faccio tutto (44,24b; 45,7b). Questo “fare” è un’azione di salvezza. In Osea, Dio si presenta già come l’unico salvatore (13,4). Isaia riprende l’idea, forse come allusione discreta a Osea (43,11; 45,21).

Per il cristianesimo, nella misura in cui si distingue dall’ebraismo, o lo prolunga, Dio è, come nei profeti che ho appena citato, l’unico autore della salvezza (Atti, 4,12). Il suo potere è una capacità di salvare. Nel cristianesimo la salvezza culmina nello status di figlio adottivo dato da Dio all’uomo. È in tale contesto che la formula “onnipotente” appare nel Credo, due volte. Lo fa nel sintagma “Padre onnipotente”. Non c’è affermazione di una onnipotenza che sia separata dalla paternità. Il Dio cristiano è onnipotente nella misura in cui è padre. Una certa riduzione degli attributi di Dio all’onnipotenza è implicata in certi pensatori, detti pigramente “nominalisti”, del tardo Medioevo, nei quali essa consente interessanti paradossi logici.

Si può avere un’idea di ciò che comporta isolare l’onnipotenza dalla paternità quando si pensi all’uso che faceva Hitler del termine “l’Onnipotente” (der Allmächtige). I suoi discorsi da bar mostrano che con ciò intendeva, secondo un biologismo rudimentale d’ispirazione darwiniana, l’insieme dei meccanismi naturali che assicurano la superiorità di un popolo non eletto, ma selezionato nel senso forte del termine.

Per l’islam, tra i 99 più bei nomi di Dio enumerati dalla tradizione, e che il pio musulmano sgrana sul suo rosario, una quindicina lo presentano nel registro della potenza. La qualità della potenza è tanto più importante in quanto dà al monoteismo coranico il suo carattere distintivo. Dio è unico nella misura in cui è il solo detentore del potere.

La prova dell’autenticità di un dio è il suo potere (sultān). Secondo il Corano, se i falsi dèi avessero un potere, sarebbe una prova in loro favore (VII, 71; XII, 40; XVIII, 15 [prova]; XXX, 35; LIII, 23). Ebbene, tutti questi falsi dèi sono impotenti. Non si tratta di avere una qualche caratteristica, ad esempio la bontà o la saggezza, bensì di possedere la capacità di agire (X, 68; XXXVII, 156). Dio è caratterizzato non meno di sei volte dal sintagma “l’unico, il dominatore” (al wāhid al qahhār) (XII, 39; XIII, 16; XIV, 48; XXXVIII, 65; XXXIX, 4; XL, 16).

Il rifiuto del politeismo è anzitutto il rifiuto di condividere il potere. Uno degli argomenti contro l’esistenza di più dèi consiste nel dire che, se così fosse, essi si impedirebbero l’un l’altro di agire (tamānu’). L’idea è nel Corano (XXIII, 91) ed è ripresa dai “teologi” e anche dal filosofo Averroè. Da qui la perplessità divertente di un musulmano “di base” davanti a una religione politeista nella quale gli dèi vanno d’accordo, ad esempio perché si sono spartiti il mondo come nel mito greco del Dios dasmos, come lo riporta Omero: a Zeus il cielo, ad Ade il mondo sotterraneo, a Poseidone il mare, e la terra in possesso congiunto. Per il Corano, se ci fossero più dèi, sicuramente cercherebbero di detronizzare l’Unico (XVII, 42; XXI, 22).

Si percepisce questa sorpresa in Ibn Fadlān, che, nel 921, fu inviato dal califfo al Muqtadir in ambasceria verso il nord da turchi, russi, bulgari e kazaki. Si stupisce davanti al pantheon dei turchi, che all’epoca erano ancora politeisti. Essi riconoscono dodici dèi che si spartiscono diverse stagioni, regioni o fenomeni cosmici. Sopra di loro sta un Dio supremo, che regna in cielo. Il nostro ambasciatore osserva: «Il signore che è in cielo è il più grande, ma è d’accordo con gli altri e ciascuno di loro approva ciò che fa il suo associato» (šarīk).

Questo testo ingenuo è tanto più interessante in quanto la parola che impiega è proprio quella usata dal Corano per designare quel che assolutamente non vuole. “Associare” a Dio altri esseri, che necessariamente saranno creature, è infatti l’unico peccato che Dio non perdonerà mai e che assicura a chi lo commette un’eternità all’inferno (IV, 18; XXXIX, 65).

Il problema della delega

Dunque ogni potere è di Dio. Ma si può dire nell’islam, come in san Paolo (Romani, 13,1), che ogni potere proviene da Dio? Ciò implicherebbe che Dio deleghi il suo potere. Ebbene, il problema della delega di un potere divino è spinoso per sua stessa natura. Ne esaminerò quattro aspetti.

Si pone anzitutto al livello più alto, quello dell’atto creatore in generale. Il Corano descrive la creazione in termini che assomigliano molto all’inizio della Genesi, ma non conosce il riposo del settimo giorno. La Bibbia lo cita per spiegare il comandamento sul riposo dello shabbat (Esodo, 20,11). Il Corano prende alla lettera il “riposo” e rifiuta di attribuire a Dio la stanchezza che il lavoro creatore comporterebbe (XLVI, 33; L, 15; 38). La Bibbia, più che di una stanchezza e di un riposo divini, parla del contrario: Dio non cerca di stancare la creazione e la lascia riposare in sé stessa. Lascia che le creature si governino secondo quel che va chiamato – anche se la parola non è nella Bibbia e in ebraico comprare solo verso l’inizio del terzo secolo della nostra era – la loro “natura”. In mancanza della parola, l’idea mi sembra presente nella formula ripetuta dieci volte nel primo racconto della creazione, secondo la quale gli esseri viventi, piante e animali, sono creati «secondo la loro specie (mīn)» (Genesi, 1,12,21,24,25).

Il Dio coranico ha difficoltà a lasciar stare le Sue creature. Da qui, forse, la predilezione dell’islam per una cosmologia della discontinuità, un atomismo generalizzato nel quale le cose devono essere ricreate da Dio in ogni istante, e per la quale le regolarità osservabili non si fondano su una “natura” delle cose che sia loro intrinseca, ma su un’abitudine (‘āda) divina. L’esempio più netto di tale visione del mondo è la teologia apologetica (kalām) di al Ash’ari (m. 935), che a lungo ha avuto il sopravvento dal X secolo, e a dire il vero fin quasi ai giorni nostri. Sulle sue dottrine non posso che raccomandare l’ammirevole sintesi di Daniel Gimaret, membro dell’accademia delle iscrizioni e belle lettere.

Il problema della delega del potere si pone poi a livello dell’uomo in generale. Come articolare l’onnipotenza divina sulla libertà umana, intendendo quest’ultima, più che come potenza d’agire, come responsabilità e imputabilità? Storicamente parlando, la “teologia” islamica assume come punto di partenza la questione dell’onnipotenza divina e della sua azione sulle attività umane. Su questo tema si contrappongono due scuole, dette dei Qadariti e dei Giabariti. Le due parole arabe sulle quali sono formati i nomi delle due scuole contrapposte sono due sinonimi che significano entrambi “potere”. Ma uno designa il potere che l’uomo ha di decidere liberamente del proprio comportamento e l’altro il potere attraverso il quale Dio costringe la Sua creatura ad agire come Egli vuole. Ed è stata la seconda scuola, che spogliava l’uomo della sua capacità d’iniziativa, a dominare a lungo.

Il Corano contiene versetti che vanno in entrambe le direzioni. Lo hadith accentua la tendenza a vedere in Dio colui che costringe l’uomo ad agire come egli intende e a trascurare la capacità d’iniziativa dell’uomo, rompendo così l’equilibrio fra i due aspetti che il Corano rispettava ancora a vantaggio di una sorta di determinismo divino. L’idea di una delega del potere divino alle sue creature non è però del tutto assente. Così si sarebbe espresso il mistico Hassan al-Basri (m. 728), stando alla traduzione di Louis Massignon: «Allah ha creato i servitori (gli uomini) e ha affidato loro i propri affari (inna ‘Llaha halaqa ‘l-‘ibāda fa-fawwada ilay-him umūra-hum)». Tuttavia quest’idea, che in termini tecnici è tradotta con uno dei significati della parola tafwīd, è generalmente ricusata dalla scuola dominante, e per questo è rimasta un’eccezione.

Il ruolo del califfo

A questo punto bisogna che faccia una digressione per segnalare una frequente incongruenza sul significato della parola “califfo” nel Corano. Essa non significa in alcun modo “sostituto”, “vicario”, “luogotenente” o altro, bensì “successore”. Non una sola volta appare nel Corano il sintagma “califfo di Dio”; non una sola volta Dio dice che stabilirà l’uomo come “suo” califfo sulla terra. In maniera divertente, i pronomi possessivi, assenti dal testo, vengono aggiunti dai traduttori, come ad esempio nella traduzione di Denise Masson. Si dice nel vocabolario beduino che una tribù è il “califfo” di un’altra quando nomadizza in una regione che era stata occupata da una tribù precedente e che questa ha abbandonato, volontariamente o perché ne è stata scacciata.

In un brano del Corano (II, 30), Dio annuncia non che si darà un rappresentante sulla terra, ma che installerà sulla terra l’uomo che ha appena creato e che vi succederà agli angeli. Il che implica, forse, che Egli ricollocherà gli angeli in cielo. La reazione degli angeli è comprensibile: temono di dover cedere il posto a un dilettante che rovinerà tutto. Al contrario, capita che Dio evochi la possibilità di una successione capovolta, in cui gli angeli sostituiscano (yahlufūna) gli uomini sulla terra (XLIII, 60). Altri passi si rivolgono agli uomini che Dio ha fatto successori sulla terra (VI, 165) o ai quali promette di renderli tali (XXIV, 55). Altrove, infine, Dio dice a David che l’ha reso successore sulla terra (XXXVIII, 24), segnatamente successore del re Saul alla guida del popolo d’Israele.

Può benissimo essere che l’uomo sia stato posto sulla terra per esercitarvi una funzione di amministratore. Solo che, da una parte, il Corano non dice nulla della funzione che Adamo, appena creato, è ritenuto esercitare là dov’è stato posto, a differenza della Bibbia che indica che la prima coppia umana è stata posta nel Giardino dell’Eden per coltivarlo e averne cura (Genesi, 2,15). E d’altra parte nominare qualcuno a un posto non vuol dire trasmettergli una parte del proprio potere.

Detto questo, sta di fatto che l’incongruenza ha una storia e persino le sue credenziali di nobiltà. Rende possibile un umanesimo coranico, e per questo è ripreso a sazietà dagli apologisti dell’islam. Così Muhammad Iqbal, che traduce il versetto II, 28 con «I am about to place in my stead on earth».

L’incongruenza ha anche le sue stigmati di onta, poiché i califfi della storia ne hanno approfittato per attribuirsi titoli che suggeriscono che essi siano i rappresentanti di Dio, addirittura l’ombra di Dio (dill Allah).

C’è dunque una delega da parte di Dio del suo potere, non più alla creatura in generale, o all’uomo in generale, bensì a determinate persone? Se tale delega è un fatto, allora costituisce un potente principio di legittimazione. Opporsi alle decisioni del delegato sarebbe opporsi a quelle di Dio stesso, impresa tanto folle quanto colpevole.

Nel Corano si legge una formula generale: «Allah dà ai suoi inviati potere su chi Egli vuole (wa-lākinna Allah yusallitu rusul-hu alāman yašā’u) e Allah è potente (qadīr) su ogni cosa» (LIX, 6). Si noterà la differenza tra il potere degli uomini, che si esercita solo sui loro compagni d’umanità (man), e il potere di Dio, che si esercita nei confronti della totalità di ciò che è. Secondo un altro versetto, il messaggero ha autorità (quwwa) presso colui che ha il trono (LXXXI, 20). Il potere in questione non dispensa dall’obbedienza alla Legge divina. Si tratta al contrario di ricevere tale Legge “con potenza” (bi-quwwatin) (II, 63=VII, 171). C’è qui forse una lontana traccia dell’imperativo ebraico “hazaq!”, “sii forte”, per adempiere ai comandamenti.

Fra tutti i racconti sui profeti che ritornano a più riprese nel Corano, l’unico esempio concreto di un potere è quello di Mosè a proposito del quale ritorna in maniera ossessiva la formula: “potere evidente” (sultān mubīn) (IV, 153; XI, 96; XXIII, 45; XL, 23; XLIV, 19; LI, 38). Perché Mosè, e solo lui? Mosè è il personaggio più citato nel Corano, più di Abramo e molto più di Gesù. Forse Maometto avvertiva che il parallelismo fra se stesso e Mosè era più netto che con qualunque altra figura profetica della Bibbia ebraica o del Nuovo Testamento. Nel racconto biblico, peraltro in gran parte fittizio, si trattava di conquistare una terra promessa, di eliminarne gli occupanti e di insediarvisi definitivamente.

Il Corano contiene solo una citazione che fa riferimento all’Antico Testamento, ed è il versetto 29 del Salmo 37: «I giusti possiederanno la terra» (XXI, 105). Per la comunità alla quale si rivolgeva la predicazione di Maometto, si tratterà di stabilire un potere in grado di controllare i produttori e di vivere del loro lavoro. Solo Maometto ha osato rivendicare un’associazione al potere divino. Nel Corano, una formula torna in maniera ossessiva, soprattutto nei versetti tardivi, rivelati a Medina. Là Maometto, dapprima chiamato come podestà per conciliare due tribù in conflitto, era arrivato a esercitare già, di fatto, un potere indissolubilmente politico, militare, legislativo e religioso.

Risale probabilmente a quell’epoca la formula: «Obbedite a Dio e al Profeta» (V, 92). Si legge ugualmente: «Obbedire al Profeta è obbedire a Dio» (IV, 80). Dio e il Profeta hanno più autorità di chiunque, e nessuno potrebbe appellarsi contro le loro decisioni (XXXIII, 36; XLIX, 2). «Chiunque disobbedisca a Dio e al Suo Inviato meriterà l’inferno» eccetera (IV, 14). Del resto, non è impossibile che le citazioni che aggiungono a Dio il Suo Inviato siano state aggiunte a uno stadio della stesura del Corano che resta da determinare, poiché capita che esse turbino il ritmo del versetto.

I miracoli con i quali Maometto autentica la propria missione sono anzitutto segni di potenza. Lo si vede nel termine tecnico che li designa paradossalmente, mu’gizāt, letteralmente “incapacità”, poiché il potere che Dio dà al solo Profeta gli permette di fare cose che ai suoi avversari è impedito realizzare. Tali poteri si concretizzano infine in distruzioni.

A differenza del Cristo dei Vangeli che ridà la vista ai ciechi e fa camminare i paralitici, nessuno dei prodigi attribuiti a Maometto consiste in una guarigione. Al contrario, la sua biografi a riporta che avrebbe miracolosamente provocato la morte dei suoi avversari suscitando o riattivando ferite o malattie.

Politica islamica

Il grande problema della politica, nel corso della storia delle regioni islamizzate, sarà quello di articolare il potere dell’uomo, in particolare quello dei leader, e il potere divino. Nel Profeta coincidevano. Ma come fare, una volta morto lui? Si è potuto pensare che, se Maometto non aveva preso disposizioni riguardanti la sua successione, è perché immaginava che il mondo stesse per finire e che il Giudizio finale sarebbe cominciato mentre lui era ancora in vita.

Ciò vale solo per l’islam cosiddetto sunnita. Infatti per l’islam sciita Maometto avrebbe chiaramente investito suo nipote e genero Alì, uno dei primi ad avere accettato l’autenticità del suo messaggio. Ma un complotto lo avrebbe messo da parte e sarebbe arrivato addirittura a rimuovere dal Corano i versetti che lo designavano esplicitamente e che maledivano i suoi rivali.

Il Corano ordina di obbedire a «coloro che hanno l’autorità (amr)» (IV, 59). La parola amr ha due significati, distinti da due diverse forme per il plurale: vuol dire “affare” e “comandamento”. Essa ha permesso anche tutta una meditazione sull’imperativo creatore di Dio che rasenta le riflessioni sul logos dell’ebraismo ellenizzato di Filone e del cristianesimo giovanneo. Quel versetto viene chiamato tradizionalmente “versetto degli emiri”. Un emiro è colui al quale si deve obbedienza.

I migliori autori l’hanno visto bene. Così, quando Ben Kalish Ezab, che appunto è emiro, dà al capo della sua cavalleria, Yusuf ben Mulfrid, l’ordine di lanciarsi all’inseguimento di Bab el Ehr, il militare obbedisce senza esitazione né mormorio.

La seccatura è che l’identità precisa degli “emiri” resta incerta. Il versetto fu dunque interpretato in diversi sensi, vedendovi ogni gruppo – militare, politico, religioso, persino mistico – e il capo di ciascuno di essi una legittimazione del proprio potere. Dopo gli emiri persiani della famiglia dei Buyidi, e forse per marcare la loro differenza, i generali turchi hanno preferito il titolo di “sultano”, formula abbreviata derivata da “detentore del potere” (du ‘l-sultān), titolo assegnato attorno all’anno Mille.

Il potere, nelle società islamiche tradizionali, è oggetto di un compromesso instabile fra tre dei suoi detentori: i politici, peraltro spesso militari, che possiedono la forza materiale; i giuristi, detentori dell’autorità religiosa; il popolo, detentore di un’altra forma di amr, la pressione sociale attraverso “la commenda del bene e il divieto del male” che invita a intervenire sia con la forza delle braccia, sia con la parola, sia quantomeno con la preghiera, per opporsi a ogni pratica contraria ai buoni costumi come sono definiti dalla Legge e dalla tradizione. Si hanno così tre poli, e forse quattro, se vi si aggiunge il potere carismatico dei capi delle confraternite sufi. Il potere fu dunque oggetto di compromessi instabili. Mai gli uomini di religione, che, nell’islam, sono anzitutto uomini di legge, hanno esercitato potere politico prima che l’ayatollah Khomeini, nell’Iran dopo la rivoluzione del 1979, imponesse la velayat-e faqih, il “governo del giurisperito”.

Prima di allora si aveva una sorta di gentlemen’s agreement: i detentori del potere reale, anzitutto militare, onoravano i giuristi, facevano finta di chiedere loro consiglio in teoria prima di regolarsi nella pratica effettiva del potere. In cambio i giuristi, da una parte, costruivano un diritto raffinato, prendendo in considerazione anche casi impossibili (il bisnonno che eredita dal bisnipote, la punizione di un ladro già amputato delle quattro membra eccetera), e dall’altra parte predicavano l’obbedienza e conferivano ai principi quel minimo di legittimità che permetteva loro di farsi accettare dalla pietà popolare. Dal canto loro, le confraternite passavano dall’incitare alla rivolta la brava gente alla quiete, quando non svolgevano esse stesse un ruolo politico, come la Naqshbandiya. Buona parte della storia islamica può essere letta secondo questa griglia.

In conclusione, sono cosciente di non essermi focalizzato sul potere politico, e di avere concentrato la maggior parte del discorso su questioni che rientrano nel campo della teologia. Tuttavia, tale accentuazione del teologico, e con essa la precarietà che provoca nell’ambito del potere politico, fa parte del problema stesso.

Il testo di Rémi Brague, dal titolo: “Il potere nell’islam, questione politica e teologica”, apparirà nel numero di luglio-agosto di Vita e Pensiero, bimestrale di cultura e dibattito dell’Università Cattolica.

La traduzione è a cura di Anna Maria Brogi.

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