Riguardate “Non essere cattivo”, fatevi contagiare dall’amore

Non ricordo che anno fosse. Io avevo pubblicato il mio primo libro, Devozione, che, come posso dire, non esisterebbe senza Claudio Caligari. Devozione parla costantemente con Amore tossico, e non uso questa parola come spesso si dice – queste due opere dialogano tra loro – ma voglio dire veramente. La mia protagonista, Nikita, eroinomane, parla con Cesare di Amore tossico, ne copia le frasi e impara da lui e dai suoi il romano – mi ricorderò sempre che ho chiesto per anni cosa volesse dire “ciocca er vento” –, gli chiede in qualche modo di salvarla ma allo stesso tempo, nella linea infinita di sangue che la pittrice di Ostia traccia su un quadro, davanti a Cesare, davanti a tutti noi, mentre si sente la frase «questo è un quadro fatto de vita, fatto de sangue, de sangue nostro» sa che la salvezza forse non esiste, o forse esiste proprio in un film, in un libro. Il culto Quando mi sono trasferita a Roma, nei primi anni Duemila, tra noi studenti fuorisede che vivevamo alla giornata c’era il culto di Amore tossico. Io lo avevo snobbato all’inizio perché commetto sempre l’errore di snobbare le cose che piacciono tanto poiché ho paura che mi deludano – e spesso mi deludono – ma da quando l’avevo visto non ne ero mai più uscita. Non ne sono mai più uscita. Posso citare ancora, a memoria, “Abbello su tutte ’e rote” (che in quanto barese non so pronunciare), e mille altre battute del film. Ho cercato la colonna sonora, bellissima, perfetta, di Detto Mariano, che per un po’ di tempo ho ascoltato mentre scrivevo ma che mi fa troppo male. Ho parlato anche io con Cesare, non solo negli anni in cui ho scritto Devozione, ma in tanti altri momenti della mia vita in cui ho perso la strada. Perché non è solo una sostanza stupefacente a farti perdere la strada. ’Ndo sto a annà, ho chiesto a Cesare nel mio romano maccheronico. Lui non poteva dirmi dove andavo, ma poteva dirmi che sarebbe venuto con me. Un personaggio di una dolcezza struggente, il contrario del prototipo, del cliché, dell’ottuso eroinomane. Emma Bovary è mia sorella Credo che noi, noi come generazione, anche chi non aveva mai toccato alcuna sostanza stupefacente, ci siamo sentiti visti da Claudio Caligari. Credo che quelli di noi che hanno avuto la fortuna di guardare il suo film, abbiano trovato una sorta di comprensione del dolore. E insomma io ero e sono invasata, potete vedere, ancora dopo tanti anni, da questo film, questo regista, quando conosco Valerio Mastandrea. Valerio è un uomo di grande generosità e fantasia. Gli piace tanto il mio libro, lo dà da leggere a Caligari, non so se lui lo abbia mai letto davvero ma si può immaginare per me quale figata – volevo scrivere onore – fosse. L’odore della notte, torna al cinema il poliziesco del regista cult Caligari L’invito E poi una sera Valerio mi chiama e mi dice: «C’è Caligari» – che in quel momento stava pensando e scrivendo con Valerio e con Francesca Serafini e Giordano Meacci quello che sarebbe diventato Non essere cattivo – «a San Lorenzo, mangiamo da Pommidoro, vieni, te lo faccio conosce. Vieni?». Io non mi ricordo, forse abitavo a San Lorenzo, forse al Pigneto, ma mi ricordo che mi prende un terrore. Quando ero piccola e stava per succedere qualcosa di troppo bello e stravagante, mi tiravo indietro. Quando ho studiato pattinaggio artistico e lo amavo e poi mi hanno proposto di entrare nella squadra agonistica. Quando studiavo ginnastica ritmica e lo stesso, mi hanno detto che ci potevo provare sul serio. Quando sono andata in Germania a fare un provino per entrare nella compagnia di Pina Bausch, e ho passato il primo step. La paura di riuscire, no? Riuscire a coronare un sogno, che ti butta nell’ignoto più profondo, nel mare artico in piena tempesta invernale. Nella severità dei tuoi sogni. «Vieni?». No che non vengo, me ne sto a casa a riguardare Amore tossico, piuttosto, e a ricopiare le battute frase dopo frase come avevo fatto durante la stesura di Devozione. «Vieni?». «Non posso». «Ma sì che puoi. Vie’. Ti aspetta». Valerio Mastandrea ha quella voce tra il divertito e il dolce che ti fa pensare, ma io che mi sto preoccupando a fare? Così non so se prendo la macchina che a quel tempo avevo ancora o vado a piedi da una delle infinite case in cui avrei abitato a San Lorenzo, e raggiungo il ristorante Pommidoro. Come dice Maylis de Kerangal, i ricordi in qualche modo sono il futuro. I ricordi non esistono. Ed ecco che ora io vedo i tavolini all’aperto di Pommidoro completamente vuoti, fatta eccezione per Valerio, due altre persone che non conoscevo, e un uomo più avanti con l’età, che doveva essere Claudio Caligari. Sono nata a Bari alla fine degli anni Settanta, nel mio dna non c’è la possibilità di conoscere dal vivo i propri miti come c’è in quello, per esempio, di un romano. Era impossibile. Chissà come mi ero vestita. Salgo gli scalini per arrivare alla pedana dove ci sono i tavolini fuori, il mondo gira, Valerio mi dà due pacche sulla spalla e dice «Ciao Antò», e poi ci presenta, e questa è la mano di Antonella detta Toni che prende la mano di Claudio Caligari, per davvero. Cos’avrò detto? Un balbettio del tipo «sono davvero onorata onorata onorata di conoscerla. Amore tossico lo so a memoria». Cose così. Zerocalcare su Netflix, Mastandrea: «La sua coscienza vigliacca e strisciante» Ricordo distorto Poiché il ricordo è quello che ti fai tu, è la porzione di passato che ricordi filtrata dal racconto della tua memoria, io quella cena me la ricordo come fossi sotto lsd. Tutta distorta. Vedo questa San Lorenzo buia e poco popolata, e tre sorrisi larghissimi. Quello di Valerio, che conoscevo, un po’, quello delle altre due persone sedute al tavolo, Francesca Serafini e Giordano Meacci. Francesca certamente non la conoscevo. Giordano forse lo avevo incrociato qualche volta, sinceramente adesso non ricordo. Ma ricordo questa tremante foglia nel vento che ero io, letteralmente terrorizzata, e il sorriso di Francesca, di Giordano, di Valerio, che mi accoglievano. Io che pensavo non merito di essere qui e loro che mi tiravano in ballo nella conversazione, mi parlavano di Non essere cattivo, che stavano cercando di mettere in piedi, delle difficoltà, della bellezza. E poi quel sorriso dolce, un po’ lontano, di Claudio Caligari. Qualcosa che mi ricordava Cesare, anche se Cesare è un ragazzo, e Claudio era un uomo. Un uomo che ne aveva viste tante, sofferte tantissime, per rimanere fedele alla sua idea di cinema. E accanto a lui c’erano tre persone che gli erano fedeli, e gli sono fedeli, e sono state fedeli alla sua idea di cinema anche quando Claudio non c’è stato più: Valerio, Francesca, Giordano. È stata una cena bellissima. Mi stupisco di una cosa. Nel raccontarla – come Goliarda Sapienza quando nell’Arte della gioia dice “vedo” come fosse lì, davanti, in mezzo a quello che narra – mi stupisco di una cosa. Nel raccontare quella cena sono tornata la giovane donna che ero, l’invasata di Claudio Caligari (lo sono ancora), l’invasata della vita e la terrorizzata dalla vita, pure. Sono tornata lì. Non essere cattivo solo grazie al lavoro enorme, alla passione enorme di Valerio Mastandrea, Francesca Serafini, Giordano Meacci e di tutta quella che loro chiamano la Banda Caligari (da me amata) e naturalmente di Claudio, solo a quella che a Roma chiamano tigna, e che a Bari si chiama capatòsta, solo grazie a una fedeltà, a una devozione senza tentennamenti di Claudio al cinema e della Banda Caligari al cinema e a Claudio, è un film che potete ammirare oggi. Le possibilità che ci fosse davvero erano, quanto? Il 10 per cento? Non essere cattivo è davvero un frutto dell’amore. Guardatelo, riguardatelo, fatevi contagiare dall’amore. C’è ancora (un) domani per il cinema italiano. Ce lo insegna il successo di Paola Cortellesi [Missing Caption][Missing Credit] Il testo qui anticipato è tratto dal nuovo numero della rivista Pantagruel, dal titolo Non essere cattivo, dedicato a Claudio Caligari, edito da La nave di Teseo (pp. 464, 29 euro, a cura di Giordano Meacci e Francesca Serafini), in libreria da venerdì 17.