Il poeta francese René Char definì Arthur Rimbaud «il primo poeta di una civiltà non ancora nata». Oggi quella civiltà è nata: è la nostra. È la civiltà del web e della solitudine, della dissociazione mentale e della connessione perenne, della globalizzazione esausta e prossima al collasso. Per l’accademia Rimbaud reca con sé un vago senso di colpa, il luccichio d’una coscienza sporca da esiliare all’ombra di Baudelaire. Al contrario, i poeti, dal citato Char a Pound, da Luzi a Crane, da Bertolucci a Zanzotto, da Eliot a Gatto, da Pasolini a Claudel, ammettono la gravità del virus (termine più che mai attuale) inoculato da Rimbaud nel corpo millenario della poesia.

Rimbaud non è stato “solo” un grande poeta; egli, partendo da Baudelaire (e prima ancora da Holderlin e Novalis, che non conosceva) disloca la lirica classica per ricollocarla in un luogo tuttora misterioso. Dov’è Rimbaud nelle antologie? In un certo senso, dove immaginiamo gli sarebbe piaciuto: randagio per vicoli oscuri, il «passante considerabile» tratteggiato da Mallarmé. Eppure dovrebbero appartenergli le piazze! Questo è il suo tempo! Non solo nei versi, pure nella vita egli l’ha sofferto e scontato con grande anticipo. Noi siamo i figli di un ragazzo orfano di padre e con una madre di ghiaccio (la «bocca d’ombra», la chiamava lui).

L’equivoco nasce a monte. Rimbaud, temperamento mistico, si spinge ai limiti estremi della lingua e ben al di là della letteratura – la «bella gloria d’artista» che con sarcasmo rifiuta; suoi fratelli sono Giovanni l’evangelista (che sfida a viso aperto nella Stagione all’inferno), Rumi, i profeti. E di profetico, specie nella seconda parte della sua produzione, dai diciassette ai diciannove anni d’età, troviamo moltissimo.

Coevo di Pascoli e Carducci

Rimbaud infligge la sua ferita alla tradizione occidentale fra il 1871 e il 1874. Teniamo conto, per meglio valutarne l’impatto, che la sua esperienza è pressappoco coeva all’attività di Carducci o Pascoli. Ciò che si respira dentro questo brevissimo tuffo a corpo morto è un’aria ancor oggi futura, un’aria che taglia i polmoni. La frase più famosa di Rimbaud, «Io è un Altro», è la più fraintesa. Rimbaud si sente abitato: un sentire che chiunque può sperimentare concedendosi uno spazio di puro ascolto. L’adolescente terribile, con un gesto di umiltà, si limita a poggiare l’orecchio sul petto e registrare. Nella Lettera del veggente non un solo rigo evoca qualche genere di magia. Rimbaud parla viceversa di pratiche, di esercizi per allenare la mente ordinaria a rovesciarsi allo scopo di trovarsi sul serio (essendo l’Altro sempre l’Io, solo un Io più evoluto; lo spiega magnificamente il poeta e filosofo Marco Guzzi).

Non sono i contenuti del pensiero a interessare Rimbaud, bensì la forma mentis. Solo partendo da una nuova mente fiorirà l’immensa rivoluzione che egli auspicava non già per la poesia e basta ma per la politica, la religione, l’arte, l’amore e la natura (a carico del poeta saranno perfino le piante e gli animali, e la sua lingua riassumerà profumi, suoni e colori). La massima del prodigio di Charleville andrebbe scolpita sul frontone di un palazzo dove i capi della Terra potessero riunirsi con l’intento d’invertire il senso di marcia (la rivoluzione non è una riforma, la rivoluzione è una curva drastica) e porre rimedio alla situazione odierna del pianeta – oramai quasi senza rimedio. L’io suicidario, materialista e consumista non vuole la rivoluzione. È l’Altro che la desidera, il vero io che Rimbaud intravvedeva. Rimbaud descrive una simile creatura avanzata, sorta di prototipo umano, nell’ultima e più bella delle Illuminazioni, Genio: «È l’amore, misura perfetta e reinventata, ragione meravigliosa e imprevista, e l’eternità: macchina amata delle qualità fatali. Tutti abbiamo conosciuto lo spavento del suo concedersi, e del nostro: oh godimento della nostra sanità, impeto delle nostre facoltà, affetto egoista e passione per lui, lui che ci ama con tutta la sua vita infinita…» Non un Cristo già sceso fra noi, bensì il salvatore (laicamente inteso) che ciascuno diventa se «lavora a sé stesso».

Restando alle Illuminazioni, non sono pochi i passaggi che sembrano prefigurare internet, la sua folle tempesta di schegge visuali e concettuali, la sua velocità stordente e senza senso: «Il quartiere alto ha parti incomprensibili: un braccio di mare, senza barche, snoda la sua distesa di nevischio azzurro fra banchine cariche di candelabri giganti».

Oppure: «Figure che si rinnovano negli altri circuiti illuminati del canale, ma tutti così lunghi e leggeri che le rive, cariche di cupole, si abbassano e si rimpiccioliscono. Qualcuno dei ponti è ancora coperto di casupole. Altri reggono alberi, segnali, fragili parapetti. Accordi minori s’incrociano e filano, corde risalgono dalle rive. Si distingue una giubba rossa, forse altri costumi e alcuni strumenti musicali».

E però una tale potenza di fuoco sprigiona una tristezza enorme, inabissandosi nel vuoto che scava. Le figure delle Illuminazioni sono spesso sole, perse in un sistema troppo rapido e alieno: «Vorrei proprio essere il bambino abbandonato sulla diga migrata in alto mare, il piccolo servitore lungo il viale la cui fronte tocca il cielo». Chi di noi, oggi, non si sente alla deriva su di un oceano incomprensibile? Chi di noi non si sente smarrito? Se il «monduccio livido e piatto» consente al «turista ingenuo» di farsi deporre dalla diligenza ove vorrà (leggendo Serata storica il club Méditerranée non è lontano), ebbene la nostra libertà coatta, avverte Rimbaud, ci costerà disastri. L’adolescente scorgeva con chiarezza, dietro le pirotecniche esposizioni universali e il fumo sempre più spesso delle metropoli, le conseguenze di una hybris cieca e ottusa.

Il brusco tacere

E tuttavia Rimbaud muta per sempre il rapporto fra l’uomo e il linguaggio, e dunque fra l’uomo e lo spirito, col suo brusco tacere, su cui si è discusso perfino di più che sui suoi brani. Il ventenne superdotato posa la penna, la calpesta, la disprezza e infine la dimentica; e dopo fughe inenarrabili si caccia nel forno di Aden a trafficare armi e imballare caffè. Un simile gesto, pur rimanendo avvolto nel bozzolo dell’enigma individuale, ammonisce chiunque venga dopo, minacciandolo ed esortandolo assieme. Non si parla né si pensa («Non si dovrebbe dire penso dunque sono, bensì sono pensato»: di nuovo la Lettera del veggente) senza pagare un prezzo. Per operare sulla propria interiorità, per scendere nell’ignoto (il nostro inconscio, Rimbaud scrive trent’anni prima delle prime opere di Freud) e risalirne senza soccombere, per risalirne addirittura più ricchi, è necessario un lavoro specifico – il «lungo, immenso e ragionato sregolamento di tutti i sensi» che il visionario francese attuò su di sé con febbrile impegno.

Rimbaud ebbe intuizioni formidabili e in un pugno d’anni regalò all’immaginazione una nuova terra; purtroppo non trovò compagni né maestri e rinunciò a proseguire («Non potevo continuare, sarei diventato pazzo», confessò alla sorella). Dopo un secolo abbondante di psicoanalisi, dopo i «lavoratori terribili» che egli preconizza nella Lettera e che puntuali si sono manifestati in ogni ambito artistico, dopo le scoperte della filosofia, dell’ermeneutica e della fisica abbiamo cognizioni assai maggiori di cosa Rimbaud intendesse per «cambiare la vita»: una frase tanto ingenua solo un giovanotto poteva pronunciarla con tanta serietà.

Esiste un’alternativa alle iene di Aden e il suo nome è la consapevolezza dell’Altro, la consapevolezza di chi possiamo essere se la smettiamo di presumere di conoscerci già e ci apriamo a inedite e insondate dimensioni interiori: «Sappiamo dunque, in questa notte invernale, da un capo all’altro, dal polo tumultuoso al castello, dalla moltitudine alla spiaggia, di sguardo in sguardo, con forze e sentimenti affievoliti, invocarlo e vederlo, e allontanarlo, e sotto le maree e al sommo dei deserti di neve, seguire il suo sguardo, il suo alito, il suo corpo, la sua luce».

© Riproduzione riservata