Milano, stazione centrale. All’ora X il Frecciariossa per Roma parte dal binario Y. Il treno è pronto e aperto, e i pendolari Milano-Roma lo vedono. Ma restano fermi davanti al tabellone, manca l’indicazione. La faccenda resta sospesa per minuti. Si tirano gli elastici delle mascherine (che danno fastidio alle orecchie). Si tormentano i manici dei trolley. Compare la scritta. Si schizza verso le carrozze.

Ci si potrebbe sedere in treno prima o dopo, ma si scatta, compulsivi e solitari, a comando del display. Il tempo delle notifiche, su tabellone, su calendario, in-app, non è il tempo di un’informazione. È potere. È una spinta. Verso dove?

Secondo Byung-Chul Han e il suo La scomparsa dei riti verso un produttivismo che, nell’Ipermoderno, trionfa anche grazie al mondo digital, fatto di piccole, apparentemente innocenti, quasi sempre private e singolari, deadline. Il mondo social, oltre che sui dati degli utenti, vive sul tempo di “engagement”, indipendente dai contenuti: stare a commentare livorosamente qualcosa (o stigmatizzare qualcuno che commenta livorosamente qualcosa) è indifferente, l’importante è che si stia dentro al format. E al suo tempo.

Il vero problema è che qualsiasi rituale privato – noi da soli col social – finisce per riprodurre il meccanismo del “fort/da”, spiegato da Freud in Al di là del principio di piacere. Si risolve in compulsività: binge watching, binge gaming, eccetera. O in comunità di origine digital che ingigantiscono le ossessioni, ci costruiscono elaborati deliri, dai QAnon, ai complottismi e terrapiattismi più vari. A volte finiscono per imitare – senza saperlo – il rifiuto del mondo, già presente in correnti di pensiero antiche con altri moventi e scopi: gli hikikomori sono perfetti mistici senza oggetto.

Il dio che danza

Secondo Byung-Chul Han, di buona formazione hedeggeriana e marxiana, tutti questi pseudo-rituali sono patologie del tempo sottomesso a una produttività forzata. Cosa c’è dall’altra parte? Ci sono i rituali veri. Che nascono intersoggettivi. E privi di scopo diretto. I rituali sono flirt con l’universo del gioco. La ritualità, perfino quella della guerra (Byung-Chul Han cita von Clausewitz) è sempre uno stare a regole che non hanno un fine preciso. Stesso discorso per quelle che una volta si chiamavano “belle maniere”, educazione, cerimoniali. E per quanto riguarda la “improduttività” dell’arte, della poesia. E dell’eros.

Di fronte al panorama della scomparsa dei riti collettivi, l’unica medicina è il tempo della festa, del lusso, in cui non occorre compiere azioni incanalate nel lavoro. È un tempo basato sulla compresenza di tempi diversi. Il dio che danza è il bellissimo titolo dell’ultimo libro di Paolo Pecere (Nottetempo), una sorta di ricerca del tempo perduto e una esplorazione di ritualità, dalla Puglia all’India, all’Africa, al Brasile.

E la caratteristica più forte delle musiche/danze di origine rituale, quelle che segnano forme di venerazione, è la poliritmia. Nella tarantella è l’ambiguità tra terzine e due quarti. Nel reggae gli accenti “one drop” sul tre in una battuta di 4/4. Nei derivati africani (fino al blues e al jazz) il senso dello shuffle e dello swing. In Sudamerica le “clave”. Sono irregolarità condivise. Spaesamenti simbolici rispetto all’univocità della freccia del tempo. Spazi estatici del significato. Esorcismi di libertà rituale contro le possessioni produttive, le compulsività, il potere delle deadlines dei display, e delle notifiche. In-app o meno.

 

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