Vent’anni fa, l’11 settembre 2001, mi trovavo ad Amman in Giordania per partecipare a un incontro tra colleghi statunitensi delle performing arts e professionisti del Medio oriente promosso dal Middle East Center for Culture and Development (Meccad) e grazie al contributo di alcune Fondazioni grantmakers.

Ero l’unico europeo invitato e, dopo le precedenti giornate di lavoro, il governo giordano aveva organizzato una visita al sito archeologico di Jerash a quaranta minuti dalla capitale. Fu durante l’escursione che arrivò alla coordinatrice italo americana del convegno il messaggio che a “New York era scoppiata la guerra”. Non dicemmo nulla ai colleghi americani di una così incerta e stramba notizia, anche se già qualcuno di loro segnalava di non riuscire a collegarsi o avere risposte ai messaggi inviati a casa o in ufficio.

Poco dopo arrivò un camion di soldati dell’esercito giordano che ci fecero frettolosamente risalire sul bus senza nessuna spiegazione e ci scortarono fino all’albergo di una grande catena occidentale, nel quale eravamo alloggiati al centro di Amman, dove ci intimarono di non uscire, presidiando per sicurezza l’ingresso. Entrando nella lobby dell’hotel vedemmo tutti, per la prima volta, cosa fosse accaduto alle Torri gemelle e la crudezza di quelle immagini sconvolgenti e impensabili fece irruzione nelle nostre vite.

Musicisti afghani

Il giorno dopo, grazie all’impegno del team logistico del Romaeuropa Festival e alla collaborazione di un fedele abbonato del Ref, riuscimmo a volare a Roma con uno degli ultimi voli che sorvolò lo spazio aereo del Libano prima della chiusura per le operazioni militari in Afghanistan delle settimane seguenti. I colleghi americani rimasero nostri ospiti a Roma fino alla riapertura di alcuni aeroporti statunitensi.

L’anno successivo, nell’autunno del 2002, ospitammo al Ref, in collaborazione con il Théâtre de la Ville di Parigi, il primo gruppo di musicisti afghani che dopo la caduta del regime dei Talebani riuscì a tornare ad esibirsi sui palcoscenici internazionali.

Il loro concerto, oltre a celebrare la ritrovata libertà per gli artisti e le artiste del loro paese di potersi di nuovo esibire in pubblico, si inseriva in una lunga serie di esplorazioni musicali che Romaeuropa aveva regolarmente dedicato alle culture tradizionali del Tajikistan, Kazakhistan, Sind (Pakistan), Ouzbekistan, Iran (Teheran e Kurdistan iraniano), Azerbaigian e che hanno trovato nei programmi del Ref sempre un posto speciale accanto alle esibizioni e interpretazioni del Ramayana dal sud est asiatico (Tailandia e Indonesia) e Mahabharata (Kerala India), alle forme della rinata danza Khmer cambogiana, ai cicli musicali dedicati a Marocco, Algeria ed Egitto e alle esplorazioni delle figure principali delle nuove musiche africane e della diaspora internazionale con le loro ibridazioni strumentali più attuali.

A queste presenze hanno corrisposto gli interventi di grandi artisti occidentali che hanno trattato e integrato nei loro spettacoli temi e interpreti provenienti da quegli orizzonti culturali come Monsters of Grace, l’opera di Philip Glass composta sulle liriche sufi di Gialal al-Din Rumi unita alla potenza visiva di Robert Wilson o Uljan Baibussynova interprete del repertorio jyraqu dell’Asia Centrale in Children of Herakles con la regia di Peter Sellars.

Il festival

Nelle 36 edizioni del Ref abbiamo mantenuto viva l’idea che il racconto del nostro tempo dovesse tenere assieme la sua complessità e le sue contraddizioni, sostenere i segni più forti della ricerca e dell’innovazione e accogliere la pluralità delle espressioni artistiche anche tradizionali, senza nascondere quel dualismo di fondo presente anche e soprattutto nel campo culturale che c’era già vent’anni fa e che oggi, anche alla luce di quanto sta accadendo in Afghanistan e in tante parti del mondo, sembra manifestarsi come la maggiore faglia che agita il nostro presente, dove la spinta al cambiamento culturale artistico e sociale collide con forti resistenze tradizionali e locali che sono a guadar bene altrettanto globalizzate.

E forse non è un caso che proprio negli ultimi venti anni si sia assistito da un lato a una spinta verso una globalizzazione delle produzioni e dei gusti culturali e dall’altro a una radicalizzazione spesso religiosa, con risultato di aver oscurato o marginalizzato le forme più originali e tradizionali delle culture extra-europee.

Questa frattura, oltre a tracciare una linea tra parte dell’occidente e porzioni consistenti del resto del mondo, è viva anche negli stessi paesi occidentali, alle prese con profonde trasformazioni culturali e sociali che negli ultimi anni vedono affermarsi temi e rivendicazioni sensibili che sembrano prendere il sopravvento anche sulle questioni economiche. Così l’attuale produzione artistica e culturale guarda ai temi dell’inclusione, declinata tra nuove cittadinanze e identità di genere, alla sostenibilità ecologica, alle narrazioni e alle critiche post-coloniali. Urgenze che stanno ridefinendo su scala globale un panorama artistico sensibile e attento ai linguaggi e alle estetiche che trova la sua più ampia espressione nelle nuove generazioni di artiste e di artisti. In un incontro tra le generazioni profondamente segnate dall’11 settembre e quelle che hanno ereditato le sue conseguenze globali. Forme e pratiche originali spostano i confini della ricerca verso territori che sentiamo più vicini, senza mai nasconderne le contraddizioni.

La serie delle “parole delle canzoni” costruita con Treccani, il progetto musicale “line up” dedicato a giovani artiste della scena musicale italiana, gli spettacoli del duo catalano cileno Azkona&Toloza sul colonialismo e la devastazione naturale del Sud America, le protagoniste di “Mailles” della ruandese Dorothée Munyaneza o le rivisitazioni dei classici europei della sudafricana Dada Masilo, il format tra conferenza e assemblea con il pubblico dei Rimini Protokoll sui temi della cooperazione globale e della sostenibilità ecologica, la fluida interpretazione identitaria di “The Köln Concert” di Keith Jarrett da parte del coreografo afro americano Trajal Harrell rappresentano alcuni dei segni di queste sensibilità che accogliamo nel programma del Ref 2021 come altrettanti temi su cui riflettere e da condividere con il pubblico e che siamo felici di esplorare anche con lo sguardo e la redazione di Domani.

Queste scelte artistiche sono associate a un’originalità del festival, a partire da uno sguardo curatoriale femminile sempre presente fin dall’inizio che ora si articola in una pluralità condivisa, fino alla scelta di bilanciare le emissioni di CO2 prodotte dai viaggi aerei delle artiste e degli artisti che vengono a Roma con la piantumazione di oltre 600 alberi nel bosco di Macchia Tonda a Santa Severa. Rimane la contraddizione e la tristezza nel constatare che vent’anni dopo l’11 settembre 2001, le scuole di musica in Afghanistan stanno chiudendo: ancòra una volta questi musicisti perderanno la libertà di produrre cultura, di essere ascoltati.

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