«Fabien quella notte erra nello splendore di un mare di nuvole, ma, più in giù, c’è l’eternità». È una frase di un famoso romanzo di Antoine de Saint-Exupéry, Volo di notte, del 1931, ma potrebbe essere il suo emblema. Se al nome Fabien sostituiamo quello dell’autore, Antoine, o meglio Tonio, come lo chiamavano amici e amanti, abbiamo il suo ritratto, il senso della sua vita. Staccarsi da terra. Volare. Trovarsi in mezzo allo splendore delle nuvole come in un mare. Non riconoscere più la differenza fra cielo e terra e acqua. Con la consapevolezza, sempre, di un tempo sospeso, qualcosa fra la vita e la morte, anzi non sapere più niente della differenza fra vita e morte – perché volare è rischiare a ogni istante di precipitare dentro l’eternità.

Morire precipitando

Cosa sapevo di Saint-Ex (altro diminutivo imprescindibile)? Avevo letto da bambina il suo libro più famoso, Il piccolo principe, innamorandomi della stranezza, svagatezza, capricciosità di quel giovanissimo personaggio. Da grande, un altro scrittore-aviatore, Daniele Del Giudice, mi fa scoprire Volo di notte e mi rivela che il piccolo principe è lo stesso Saint-Ex, perché «io credo veramente che con due sole cose il volo abbia a che fare, oltre che con la tecnica: col mito e con l’infanzia» (lo ha anche scritto in un saggetto del 1993 raccolto dentro In questa luce, pubblicato nel 2013 da Einaudi). Sapevo pure che Tonio era poi riuscito a morire come voleva, precipitando. Aveva quarantaquattro anni, compiuti da appena un mese.

Era il 31 luglio del 1944, e lui era su un volo di ricognizione. Partito da Borgo, in Corsica, era diretto a Lione. Centrato da un caccia tedesco al largo di Marsiglia. Ma questo l’ho scoperto nel 2004 leggendo i giornali, perché soltanto allora furono ritrovati i resti dell’aereo su cui era morto. Del corpo però nessuna traccia. Solo un braccialetto con le iniziali. Per cui continua tuttora ad aleggiare intorno al suo destino una nebbiolina di mistero.

Nulla sapevo invece dell’uomo, della sua vita, del suo carattere, dei suoi amori. E ora invece mi sembra di averlo conosciuto personalmente. Ora so il modo in cui parlava e come si ubriacava. Quanto era attaccato alla madre. Come s’innamorava in continuazione, compulsivamente, soltanto guardando l’ondeggiare di una gonna. I gesti che faceva, e quanto fosse ossessivo e logorroico. Lo so perché ho letto un affascinante romanzo, Rubare la notte, appena uscito da Mondadori, che ne racconta e reinventa la storia con estrema fedeltà e riesce, insieme, con quella capacità che hanno certi scrittori di farsi medium, a illuminare il segreto di una personalità, immaginandola e rendendola così più vera del vero.

L’ha scritto Romana Petri che non mi risulta abbia mai pilotato un aereo in vita sua. Invece di libri ne ha scritti tanti e recentemente, fra l’altro, e con molto successo, un romanzo sulla vita di un altro grande scrittore, Jack London, Figlio del lupo (sempre con Mondadori). Scrittori molto “maschili”, mi viene da pensare, ma di cui lei, Romana, riesce a intuire e raccontare un’inconfessabile fragilità.

Un’inconfessabile fragilità

Non ha mai guidato aerei Romana Petri, ma in questo Rubare la notte siamo sempre in volo, chiusi dentro minuscole cabine di pilotaggio a rischiare continuamente la vita, a guardare nuvole e stelle, a sperimentare il «più grande distacco concesso all’uomo: quello dalla terra pur essendo in vita». Saint-Ex viene narrato dall’esterno, con distacco e oggettività, ma con affondi “critici” in cui l’autrice riflette e in qualche modo spiega le stranezze dell’affollatissima biografia del suo personaggio.

Come quando guarda al complicato puzzle che fu la sua vita amorosa, per esempio, con al centro Consuelo, la moglie, strampalata più di lui e all’altro centro, Loulou (Louise de Vilemorin), amore della giovinezza da Tonio rimpianto per tutta la propria breve esistenza, perché si era sottratta, essendo una seduttrice anche più fatale di lui. Una che poteva dire: «Ti amo per tutta la vita, stasera». Consuelo ha diritto al centro solo in quanto moglie, in realtà viene continuamente messa da parte perché un’altra gonna ha fluttuato troppo vicino a Saint-Ex e lui non ha saputo resistere. Non sa mai resistere.

Ha bisogno di essere coccolato da tante donne diverse, accarezzato, anche solo tenuto stretto dentro un letto senza fare niente di sessuale. Perché la paura della fine lo perseguita, fin da piccolo, con il suo corteo di perdite: la morte del padre e, soprattutto, di un fratello amatissimo. Per questo lui si ferma alla prima infanzia, prima della morte del fratello. Perché i bambini conoscono, scrive Romana Petri, «la differenza fra ciò che è urgente e ciò che è importante». Per questo quando sua madre gli chiede: «Come farai a diventare grande?», lui le risponde: «Non lo diventerò». Per questo, quando ormai adulto affida a un amico aviatore più vecchio il manoscritto del suo ultimo libro, Cittadella, presentendo una fine imminente, gli dice: «La vita, qualsiasi età si raggiunga, è comunque troppo breve».

È un bambino bizzarro e saggio Antoine de Saint-Exupéry. Come il suo piccolo principe. Per tenere in pugno la complessa narrazione della sua vita al contempo solitaria e frequentatissima, il suo carattere contraddittorio, il suo essere «un idiota di genio» come brillantemente lo definì un amico, Petri percorre due linee narrative. Quella oggettiva, esterna, che dicevo prima, e quella interiore, dandogli direttamente la parola in una serie di lettere alla madre che attraversano disordinatamente il romanzo. Sono lunghe lettere, inventate di sana pianta mi ha detto l’autrice. Anzi, sembra che nella realtà, Tonio scrivesse, ogni volta, alla madre soltanto poche righe. Ma nel romanzo questa madre silenziosa, che lo ama immensamente da lontano e che lui ama immensamente, doveva prendere un posto di rilievo, doveva offrire il destro a Saint-Ex di essere veramente sé stesso, di meditare sulla paura, sul volo, sulla vita, sulla morte, l’amore, l’amicizia.

Di parlare come a sé stesso, insomma, di essere quello che per gli altri non era. Per gli altri lui era un bravo giocatore di scacchi, un irresistibile prestigiatore, un osannato famosissimo autore, un aviatore spericolato, un compagno di serate alticce e conviviali, un uomo non bello ma irresistibile, un amante tenero e misteriosamente disperato. (E ispirandosi a lui Guerlain aveva persino inventato un profumo, Vol de nuit, «dall’essenza molto vivace e speziata» chiuso in una bottiglia «decorata da una costellazione di eliche»).

Il bambino che sono stato

Nelle lettere dice la verità: «Io, invece, in questo enorme corpaccio da orso, conservo ancora quello del bambino che sono stato. Il mio vero strazio è proprio continuare a sentirmi quello. E allora mi chiedo, come può un bambino continuare ad amare una donna che non sia la madre?» Ecco il punto. Ecco perché questo romanzo è vitale oltre la vera biografia che narra. Perché, certo, racconta la storia di Saint-Exupéry, spericolato aviatore e disobbediente militare francese, scrittore premiatissimo in Francia e all’estero, che inanella anche numerosi incidenti miracolosamente non mortali (a parte l’ultimo), che riesce a scrivere mentre vola e s’innamora, s’innamora, s’innamora. Ma insieme traccia il ritratto di qualsiasi grande seduttore. Lo analizza e spiega, con la dannazione del Don Giovanni mozartiano che ama tutte le donne per non amarne nessuna, irresistibilmente attratto davvero, profondamente, soltanto dalla morte. E dietro la morte c’è inevitabile il profilo di chi ha dato la vita. Unica possibilità, la morte, per tornare nel nulla materno, iniziale, infinito. «Madre, se qui, mentre perdo quota, ci fosse un giardino, coglierei una rosa pazzerella per voi. Una di quelle che hanno sempre le risposte pronte e quando le finiscono si stizziscono e restano mute. Posso offrirvi una rosa?»

Già, quella rosa vanitosissima e scontrosa, magari, che aspetta il ritorno del piccolo principe su un lontanissimo asteroide.

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