Salute mentale, Fedez e fede. La crisi esistenziale del rap

Marracash, Fedez, Anastasio: tre visioni del mondo, della musica, ma anche della storia e del senso della vita. Con due dischi importanti e un libro già vendutissimo, nell’ultimo anno questi artisti hanno contribuito ad aprire una crisi esistenziale nel rap italiano. Qualcuno l’ha risolta passando da Fedez alla fede. Fedez e il confine tra realtà e finzione: il vero significato di “Bella stronza” Il disagio della civiltà In principio fu Marracash: Persona, il suo disco del 2019, portava nella scena locale il tema che sarebbe poi stato definito con le parole “salute mentale”. Lo documentano le tracce dell’album – a partire dalla hit Crudelia – e le interviste rilasciate all’epoca. Lo stesso titolo Persona, citando il celebre film di Ingmar Bergman, rimandava allo sdoppiamento trai due corpi del rapper, pubblico e privato, maschera e volto. Nelle parole del rapper: «Tutto sotto controllo, tranne i sentimenti/ Pure mentre dormo io digrigno i denti/ Cerco un equilibrio che mi tiene insieme/ Tu mi chiedi perché non mi voglio bene». All’interno di un genere che solitamente mette in scena il successo materiale e la lotta per il prestigio, era apparsa una crepa che l’artista milanese avrebbe continuato ad allargare nei dischi successivi. Dopo la parentesi felice di Noi, loro, gli altri, il disco del 2021 che raccontava la conquista di un equilibrio precario lontano dalle sirene dello show business, Marra aveva chiuso il 2024 con È finita la pace, un album e un programma che ha consolidato il suo titolo di king del rap esistenzialista – un sovrano barocco, renitente alle liturgie del potere, come il Riccardo II di Shakespeare. Già, perché ciò che la lingua dei tecnocrati chiama “salute mentale” spesso non è altro che il disagio della civiltà. Un secolo dopo Freud, siamo di nuovo da quelle parti. Negli ultimi anni tanti altri artisti hanno seguito le orme del re. Il più mediatico è senza dubbio Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez. «La salute mentale è il tema dei prossimi quindici anni», ha dichiarato qualche mese fa, dopo aver portato a Sanremo – dove nel 2026 ritornerà insieme a Marco Masini –una canzone sulla depressione. Nel giro di pochi anni il tema è esploso, fino a diventare un elemento identitario nelle bio sui social. Che cosa ci lascia Sanremo: la reinvenzione dei trapper di nuovo romantici e ripuliti Malattia mentale o malattia sociale? In virtù delle sue innegabili doti di comunicatore, persino gli anacoreti sono stati edotti delle disavventure sentimentali e dei problemi di salute di Fedez. Oggi un libro autobiografico consegna al pubblico la sua versione dei fatti: ne L’acqua è più profonda di come sembra da sopra (Mondadori) colui che in quarta di copertina viene definito «rapper multiplatino, imprenditore e volto televisivo» firma una specie di romanzo di formazione che inizia in mezzo alle periferie milanesi e finisce nelle residenze borghesi di CityLife. Qualcuno, per farsi notare, lo candida addirittura al Premio Strega. Non è facile capire quale sia l’origine del malessere raccontato da Fedez, e soprattutto quanto sia rappresentativo di un problema sociale più esteso. Nel libro si parla molto dell’abuso di psicofarmaci: dopo una prima fase di “ubriacatura farmacologica” (ipomania) che lo ha portato a sviluppare una pesante dipendenza, il cantante interrompe bruscamente il trattamento e soffre una crisi di astinenza, caratterizzata da paralisi, crampi, allucinazioni e impulsi suicidi. Se viene quasi da compatire i ricchi per via degli apprendisti stregoni ai quali affidano le loro cure, resta però una domanda: quale patologia specifica avrebbe motivato un trattamento così aggressivo? Dalle pagine de L’acqua è più profonda di come sembra parrebbe che la fonte primigenia dello squilibrio derivi per il giovane rapper dall’essere costretto a frequentare Milano con la sua borghesia urbana, ipocrita e opportunista, progressista per convenienza. Un mondo che rende matti come le corti del Seicento o i salotti fin de siècle dove fioriva l’isteria esaminata da Freud. Se così fosse, più che un problema medico, avremmo a che fare con un problema socio-culturale: il disagio della civiltà è un Super-Io con il volto di Chiara Ferragni. La trap è il futuro, bro Il problema del senso «Depressione farmacoresistente», la chiama Fedez. Un eufemismo per non ammettere che le malattie sociali non dovrebbero essere curate con le pillole. E allora con cosa? L’acqua è più profonda di come sembra si conclude con l’approdo al mental coaching e alla New Age. In pratica l’omeopatia del malessere: inoffensiva, nel bene e nel male. C'è chi prende altre strade. Marracash ha voluto raccogliere la sua trilogia esistenzialista sotto un unico titolo, Qualcosa in cui credere. Era anche il titolo di un pezzo del 2019, nel quale assieme a Guè Pequeno cantava: «E se non hai niente in cui credere/ Non avrai niente che puoi perdere, sì, tranne te». I due concludevano osservando che «c’è troppa poca fede rimasta», sebbene fossero ben lontani dalla conversione. Eppure l’invito ad abbracciare la fede è stato preso sul serio da un altro rapper, Tha Supreme, che nello stesso giorno a ridosso del Natale 2024 in cui usciva LA PACE È FINITA – con i suoi «Signore aiutami» messi in bocca a un lavoratore sfruttato – pubblicava con la sorella Mara Sattei un intero disco di gospel alla gloria di Gesù Cristo, Casa Gospel. Un disco che è anche una lunga preghiera che segna il riavvicinamento del musicista alla fede. Con versi come: «Tutto quello che ho in me non cambierà/ Perché Lui sarà Dio per l’eternità/ Perché fuori dal tunnel, tutti i miei dubbi/ I giorni bui, perché restiamo qua/ Dentro quei lussi, ordini futili/ Li colmiamo tutti i vuoti che uno ha/ Dio l’ha fatto, bro, Dio l’ha fatto». Neffa: «Il rap racconta il disagio. Invecchiare ti dà materiale» Le macchine non possono pregare Come se non bastasse, con una preghiera inizia anche l’ultimo disco di Anastasio. Passato dalla vittoria a X Factor al palco di Sanremo senza mai entrare nel giro grosso né partecipare a featuring con altri artisti della scena, il rapper campano è tornato con un concept album così intellettualmente ambizioso da sembrare uscito da un multiverso parallelo. Le macchine non possono pregare è un manifesto antimoderno che, come un romanzo di Valerio Evangelisti, tiene assieme i moti del 1848 e il futuro distopico dominato dalle macchine, l’anticapitalismo romantico e il cyberpunk, Baudelaire e Baudrillard. Per una coincidenza del calendario, le canzoni di Anastasio dovrebbero essere ascoltate sfogliando le pagine di Sangue nelle macchine. Le origini della ribellione contro la tecnologia di Brian Merchant, appena uscito per Einaudi: un libro monumentale che racconta la ribellione popolare contro la rivoluzione industriale in Inghilterra. In realtà l’uscita dell’album è stata accompagnata dalla pubblicazione di un fumetto – realizzato in collaborazione con Arturo Lauria, Davide Nota, Egidio Matinata per Edizioni BD – che racconta la lotta degli ultimi esseri umani contro il Dio Elettrico evocato dai tecnosciamani. Il disagio della civiltà, qui, assume tinte heideggeriane. Ma potremmo citare anche Hegel, Marx, Nietzsche, Lukacs, Benjamin e la Scuola di Francoforte, tanti sono i riferimenti filosofici impliciti. Per Anastasio la vita umana, sottomessa al dominio della razionalizzazione, appare schiacciata e svuotata: «La tirannia da combattere è il tempo/ L’imperatore ne è un misero servo./ Spara il fucile, muore un ragazzo/ Gira la ruota sullo stesso perno./ Il vecchio potere ritorna in eterno/ E tutto va avanti, ma rimane fermo». Le macchine, dice il titolo dell’album, non possono pregare; sarà dunque una preghiera a mandare in tilt il loro dominio infrangendo l’ordine binario del principio di non-contraddizione. Seconde generazioni e rabbia, Fabri Fibra: «Lo stato non le aiuta» È dunque vero che, come disse Heidegger, solo un Dio ci può salvare? In Qualcosa in cui credere, Marracash dava una risposta diversa. Quel qualcosa capace di salvarci dalla disperazione non è necessariamente una religione, anzi in questo caso è la musica stessa: «Musica, tu allevi e mantieni l'anima intatta/ Di’ la parola che sveglia il golem, dai un cuore all’uomo di latta/ Fa’ del palco la mia chiesa, dei testi il mio testamento/ Tieni la mia mano ferma se e quando verrà il momento/ E dammi voce in eterno e cose vere da dire/ Sii il mio punto fermo, qualcosa per cui morire». A conferma della svolta barocca dell’artista milanese, l’invocazione suona quasi monteverdiana: Io la Musica son, ch’a i dolci accenti so far tranquillo ogni turbato core… Barocco, romantico, esistenzialista, il rap italiano sembra avere ancora molte cose da dire.