Sono una vignettista da sempre. Ho iniziato a disegnare quando avevo sette anni e la mia passione per le vignette è iniziata quando ho capito che potevo far sorridere gli altri con la mia matita. Ma è stato il caos dell’America degli anni Sessanta e Settanta che mi ha fatto desiderare di dedicarmi alle strisce politiche. Per il potere che le immagini hanno di creare connessioni, le vignette ci aiutano a vedere il mondo in modi in cui le parole da sole non possono, e le vignette politiche spesso distillano questioni fondamentali e ci ricordano la nostra comune umanità. Volevo dare il mio contributo. Un vignettista che mi è stato di ispirazione agli inizi è stato Herblock del Washington Post, il giornale della mia città. Alla fine ho trovato casa al New Yorker, e per diversi anni ho percepito che le mie vignette, e quelle dei mie colleghi artisti, fossero rispettate e persino apprezzate. Il fatto che la commissione del premio Pulitzer abbia istituito una categoria per i vignettisti nel 1922, appena cinque anni dopo il lancio del premio, ha conferito legittimità alla nostra arte.

Così quando la commissione del Pulitzer quest’anno ha rifiutato di nominare un vincitore del premio per la vignetta – un anno dopo aver rifiutato a tutti e tre i finalisti di nominare il proprio vincitore nel 2020 – i vignettisti giustamente l’hanno presa come uno schiaffo, ma anche come una triste conferma di ciò che molti di noi sospettavano da tempo: la nostra professione di vignettisti politici è in pericolo. In un momento in cui il mondo ha bisogno di farsi una bella risata, in cui abbiamo bisogno delle vignette per aiutare a vedere e capire cosa sta succedendo, ci sono sempre meno opportunità per le persone il cui lavoro nella vita è di aiutarci proprio in questo. Le vignette politiche hanno svolto un ruolo importante nel guidare il dibattito democratico dalla fondazione della repubblica. Durante il movimento per il suffragio agli inizi del Novecento, i disegni di Rose O’Neill e di altri artisti hanno contribuito a rimodellare l’immagine americana delle donne che volevano il diritto al voto e questo ha generato simpatia per la causa.

Durante la Seconda guerra mondiale le vignette di Herblock, Edwin Marcus del New York Times e molti altri hanno sostenuto lo sforzo bellico; Bill Mauldin ha vinto il Pulitzer nel 1945 per le sue vignette Up Front per United Features Syndicate, che hanno contribuito a rafforzare il morale tra le truppe e sul fronte interno. Nei turbolenti anni Sessanta e Settanta, la vignette commentavano e ironizzavano sulle nostre divisioni nella guerra in Vietnam, sui diritti civili, sul Watergate e la rivoluzione sessuale. Non a tutti gli editori questo piaceva: Doonesbury, la striscia creata da Garry Trudeau, affrontava temi politici e culturali in modo fresco e senza paura — e spesso, suo malgrado, era bandito dai giornali.

Ironicamente, la tragedia nazionale dell’11 settembre potrebbe essere stata il momento più alto della vignetta. Le vignette hanno incanalato il nostro trauma collettivo, la paura, il nazionalismo, e hanno aiutato il nostro percorso di guarigione. Dopo aver deciso di non pubblicare alcuna vignetta tradizionale nel primo numero successivo agli attacchi, il New Yorker ha rotto il silenzio la settimana seguente. Il numero iniziava con un’illustrazione di Leo Cullum di una donna in un bar che parla con un uomo vestito con un vistoso plaid. «Pensavo che non avrei mai più riso», dice la donna. «Poi ho visto la sua giacca».

Qualcosa è cambiato

Qualcosa però è successo nei primi anni 2000, che ha iniziato a erodere il posto delle vignette nella nostra società, proprio come Internet ha iniziato a minare il modello di business del giornalismo cartaceo. I vignettisti assunti nei giornali, che erano stati una parte integrante di un dialogo con i lettori – che poteva diventare acceso ma in genere rimaneva civile perché i partecipanti appartenevano alla stessa comunità – si sono trovati senza lavoro quando il numero dei giornali locali e regionali è diminuito. Molti dei giornali sopravvissuti sono stati venduti a grandi gruppi e ad altri proprietari lontani, tagliando i legami tra la pubblicazione e il pubblico locale.

La rottura del legame tra i vignettisti e le loro comunità ha avuto implicazioni di vasta portata. La mancanza di giornali locali ha portato all’autocensura da parte di alcuni vignettisti, che, rivolgendosi ai sindacati per vendere il loro lavoro a un prezzo per disegno molto più basso, hanno omogeneizzato il loro contenuto per renderlo appetibile a più mercati. Gli editori mainstream, preoccupati per i propri profitti, sono diventati sempre più diffidenti nei confronti di qualsiasi contenuto che potrebbe allontanare i lettori. Molti hanno smesso del tutto di pubblicare le vignette, come ha fatto l’edizione internazionale del New York Times nel 2019. Nonostante la crescente diversità del pubblico delle vignette, gli arbitri della professione, incluso la commissione del Pulitzer, stanno attivamente ignorando il lavoro di nuovi artisti che attingono da prospettive non-bianche o in formati non tradizionali.

E per i tempi infuocati in cui viviamo, alcuni vignettisti che diversamente userebbero la propria arte per chiedere conto a chi è al potere – o almeno per sgonfiarne la pomposità – si stanno trattenendo per timore delle ritorsioni da parte di una tribù politica, sia essa di sinistra o di destra. Posso testimoniarlo personalmente: durante le recenti primarie presidenziali ho evitato di disegnare vignette critiche su Bernie Sanders. I tratti riconoscibili e la personalità singolare di Bernie lo rendono il sogno di un vignettista e l’ascesa della sua candidatura meritava un commento editoriale in tutte le sue forme. Ho preso in giro il suo esagerato gesto di mano e i suoi capelli spettinati, ma non ce l’ho fatta a criticare il suo programma, inconsciamente consapevole che sarei stata inondata dall’odio dei “Bernie Bros” e dell’estrema sinistra.

Le vignette danesi

La tendenza ad abbandonare la pubblicazione di vignette politiche è accelerata quando i fumettisti hanno iniziato a diventare bersaglio di minacce di morte, in particolare nella controversia sulle vignette danesi del 2005 sui disegni del profeta Maometto e, in modo più orribile, nell’attacco alla redazione di Charlie Hebdo nel 2015. Quegli eventi hanno anche ristretto e acuito il dibattito sulle vignette in un referendum per alzata di mano sulla libertà di parola, con alcuni che hanno assunto una posizione assoluta secondo cui i vignettisti hanno il dovere di dire ciò che si deve dire, qualunque siano le conseguenze. Per me la questione ha tonalità più sfumate. Come ho scritto nel 2015, pur difendendo con tutto il cuore il diritto dei vignettisti di scegliere liberamente ciò che disegnano, sento che abbiamo la responsabilità della prudenza, specialmente se il nostro lavoro potrebbe potenzialmente causare un danno agli altri. Anche se dobbiamo essere efficaci, le immagini o le parole incendiarie non sono sempre la risposta. E ovviamente nessuna vignetta, per quanto offensiva per alcuni, merita una punizione violenta. In questa epoca di confusione e condanna, la vignetta politica può salvarsi? Sì, ma ci vorranno impegno, volontà e riflessione parte di tutte le parti coinvolte. Ecco alcune osservazioni da tenere presente.

I lettori devono far sapere alle pubblicazioni che vogliono che le vignette editoriali rimangano parte integrante del dibattito.

Gli editori devono riconoscere l’importanza delle vignette assumendo editori che abbraccino questa visione. Gli editori devono cercare vignette che riflettano la diversità della comunità a cui si rivolge la loro pubblicazione e che siano più aperte a nuove forme di narrazione grafica. I fumettisti devono capire che la loro creatività non è semplicemente un megafono per le loro opinioni, ma anche uno strumento di dialogo, e che la sensibilità verso gli altri non costituisce un limite alla libertà di espressione. La capacità di ridere di noi stessi e dell’assurdità della vita moderna fa bene alla democrazia. Le vignette arricchiscono le nostre vite con umorismo, connessione e intuizione. Devono essere preservate: ne abbiamo bisogno.

 

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