Sanremo all’inizio degli anni Novanta era una sorta di rito social prima dell’avvento dei social. Era uno spettacolo nato per essere commentato da chi lo stava guardando. Ci piazzavamo in salotto e ognuno dalla sua postazione sparava la sua raffica di perfidie, le metteva in condivisione da una poltrona all’altra, non avendo a disposizione il web.

Così potevamo sparlare della conduzione nazional popolare di Pippo Baudo, o potevamo ridere dell’outfit da cresimanda di Laura Pausini nella Solitudine (e il treno delle sette e trenta senza lui / è un cuore di metallo senza l’anima). Era un evento innocuo per famiglie, che dal mio punto di vista aveva poco o nulla a che fare con la vera musica.

Momenti genuini

All’epoca frequentavo il liceo scientifico sperimentale – seconda la vulgata, il liceo degli asini – e avevo messo su un gruppo punk, I cani delle belve, che si era sciolto prima dell’inizio del primo concerto.

Avremmo dovuto essere una cover band dei Sex Pistols ma avevamo litigato sulla canzone di apertura: io ero per attaccare con No Fun, il bassista con Problems. La lite scoppiò che eravamo già sul palco sicché fu abbastanza scenografica. Cominciammo a spintonarci lì davanti a tutti, e in men che non si dica nell’auditorium scolastico dove si sarebbe dovuto tenere il concerto si scatenò il putiferio.

Ma la star incontrastata di quegli anni era un ragazzo alto e dinoccolato, con lunghi capelli lisci alla Axl Rose e tatuaggi (eh no, non erano ancora diventati di moda, allora nessun calciatore si tatuava). Si chiamava Alex ed era la voce dei Rebellious brains, una band sporca e maledetta. Altro che Sanremo, altro che i bouquet di fiori gentilmente offerti dal comune!

I Rebellious brains erano tutto ciò che Sanremo non avrebbe mai mostrato della musica. Era la parte autentica, quella sopravvissuta agli anni di piombo e all’eroina dei Settanta.

Allora perfino Sanremo aveva avuto dei momenti genuini, gli sberleffi di Rino Gaetano o il 4/03/1943 di Lucio Dalla. E su tutto, come bollino di purezza, c’era stato lo sparo di Luigi Tenco, uno che aveva deciso di fare questo regalo straziante e immeritato al festival.

Tenco non si era ucciso a Sanremo, ma per Sanremo, il suo era stato un atto di protesta nei confronti della gara canora, e così facendo l’aveva legittimata e ingigantita agli occhi dell’opinione pubblica e dei telespettatori.

Ma poi erano arrivati gli anni Ottanta, e l’unica cosa notevole erano state le lacrime di Toto Cutugno con Solo tu (cantata sguaiatamente con quella faccia cupa, da antidivo: odio l’aurora / ora che non ci sei), e l’ultimo posto di Vasco aveva confermato l’assioma per cui se sei un artista Sanremo non è il posto che fa per te.

I cantautori – i Guccini e i De Gregori – avevano già sancito la marginalità del festival, e gli artisti in gara sembravano sempre gli stessi da un anno all’altro, cantanti che esistevano solo in quella settimana buia e fredda di febbraio, e che poi scomparivano per il resto dell’anno. Una bislacca compagnia di giro fatta di Minghi e Vallesi e Drupi, dove ogni tanto spuntava un tartufo, una Patty Pravo o una Loredana Bertè.

Per provare un brivido di trasgressione bisognava aspettare gli ospiti stranieri (in certe edizioni confinati direttamente da un’altra parte, in Palarock tipo riserva indiana): il playback irriso dei Queen, il seno di Patsy Kensit o la ressa per i Duran Duran.

Alex aveva pochi anni più di me, però mi appariva già grandissimo per almeno due ragioni: era venerato come un dio del rock; alle scuole superiori un anno corrisponde a un secolo.

Rock o politica

La generazione cresciuta nei Novanta stava ancora digerendo la scissione del rock dalla politica avvenuta negli Ottanta con l’avvento del pop. C’erano i seguaci del rock e i seguaci delle lotte politiche, e i primi vedevano la passione politica come una sorta di tradimento dello spirito del rock, mentre i secondi pensavano che l’approccio rock fosse un chiaro segno di disimpegno politico.

Avevamo trascorso l’infanzia con un joystick in mano, ci sottovalutavamo, vivevamo con un passato ingombrante alle spalle e la netta sensazione che non avremmo mai avuto un futuro.

Questo scontro epico tra rock e politica andò in scena durante una festa dell’Unità, subito dopo un concerto dei Rebellious brains, dove con ogni evidenza la maggior parte delle persone aveva fumato e bevuto troppo.

Tal Niccolai, esponente dell’ala più politicizzata del nostro liceo, caricò a testa bassa Alex, probabilmente colpevole soltanto di essere ciò che era, cioè il rappresentante più illustre della parte avversa, quella del rock ‘n roll. La gente si ritrasse spontaneamente formando un semicerchio, in modo che i due contendenti potessero fronteggiarsi all’interno di un ring immaginario.

I due se ne stavano avvinghiati – paradigmi perfetti anche nella fisiologia, Alex nella sua magrezza nervosa, il Niccolai nella sua corpulenza pingue –, quando il destino decise di rendere il momento ancora più epico, facendo piombare sulla città una tempesta elettrica che illuminava i volti dei lottatori, fissandoli in espressioni di pura ferocia. Chi vinse, chi perse? Nessuno lo seppe mai, ma quella rissa confermò, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Alex era umano soltanto a metà.

Entrare nel club

In provincia i giri erano quelli, prima o poi tutti si incrociavano con tutti. Così io e la donna di Alex una sera ci ritrovammo a sbevazzare allo stesso tavolo. Si chiamava Caterina e nessuno era strafottente quanto lei.

Le rubai la chitarra acustica che aveva con sé e iniziai a strimpellare. Non sapevo che pochi accordi, però mi bastò per improvvisarle una canzoncina stonata che le fece dilatare le pupille dallo stupore.

«Sei un cretino arrogante», mi disse, e sapevo che si trattava di un complimento. Eravamo ubriachi fradici, la giovinezza ci scorreva nelle vene.

«Sputami in bocca!», le ordinai.

La provocavo, facevo il gradasso.

Il mio amico guardando allibito la scena commentò: «Oh no, così no, cazzo».

Alla fine Caterina mi acciuffò per i capelli. Cominciammo a spingerci e abbracciarci, a morderci e a baciarci. Fu molto meglio di un rapporto sessuale, fu come ascoltare un live di Voodoo Chile.

Alla fine, offendendoci reciprocamente, ognuno prese la sua strada. Per giorni mi parve di levitare da terra. Io non ero più io, non potevo più essere io, visto che avevo avuto una storia con la ragazza di Alex. Una storia minuscola, okay, che forse lei si era già dimenticata, ma per me equivaleva a una specie di diploma nel corso di studi che m’interessava di più: la vita.

Le feste si succedevano a un ritmo abbastanza sostenuto. C’era sempre una scusa per festeggiare, poteva essere in un circolo Arci sperduto tra gli uliveti, in qualche cascina diroccata sui monti, in un centro sociale, o in un bosco.

Quella volta alla spicciolata giungemmo tutti a un rimessaggio per barche lungo il fiume. All’inizio non ci potevo credere, ma c’erano anche Alex e Caterina e tutto il giro dei Rebellious brains. Volevo smaterializzarmi, scomparire. Ma prima che potessi andarmene Alex guardò proprio verso di me. Per la prima volta da quando lo conoscevo i nostri sguardi s’incrociarono.

Mi stava dicendo che sapeva, che Caterina gli aveva raccontato tutto quel che avevo combinato, che mi ero ubriacato con lei, l’avevo corteggiata, ci eravamo picchiati e baciati.

Ebbene, il suo sguardo esprimeva un chiaro apprezzamento. Non mi dimenticherò mai la manciata di secondi successivi a quello sguardo incoraggiante. Mi avvicinai, e Alex mi porse un fiasco di vino novello. Di fianco a lui, Caterina mi rivolgeva lo stesso sguardo benevolo. Ero stato accettato nel club.

Mi sentii in dovere di dire qualcosa, anche se per loro due poteva bastare così.

«Io non so suonare», ammisi.

Alex sorrise. «Non importa, troverai il tuo modo».

L’unica rock star

Finì il liceo e anche le feste innescate dal passaparola. Per trovare il mio modo, per dirla con le parole di Alex, lasciai la città. Quelle vicende che parevano mastodontiche col passare del tempo si rimpicciolirono. Passarono diversi anni. Cobain si sparò, gli Oasis si sciolsero, Britney Spears si tagliò i capelli a zero. Io nel frattempo ero tornato in città e convivevo con la ragazza che sarebbe diventata mia moglie già da qualche anno.

Adesso Sanremo lo guardavamo tutti insieme, ma ognuno per conto suo. I social avevano rimpiazzato le battute sagaci del caro parente estinto. La musica leggera stava diventando leggerissima, si cercavano le hit a colpi di Auto-Tune, la maggior parte dei cantanti parlava e c’era chi, per nobilitarli, tirava fuori Adriano Celentano e Claudia Mori in Chi non lavora non fa l’amore (Allora andai a lavorare / mentre eran tutti a scioperare / e un grosso pugno in faccia mi arrivò). Il rap c’era sempre stato, ovvio, come qualunque altra cosa.

Una sera, poco prima dell’inizio del festival dell’anno scorso, sono uscito a comprare una vaschetta di gelato per me e mia moglie.

Raggiunta la gelateria più vicina ho cominciato a elencare distrattamente i gusti. Dall’altra parte del banco sentivo un silenzio un po’ troppo insistito, troppo screanzato. Ho alzato la testa. Era Alex che mi stava servendo. Ancora una volta i nostri occhi si sono incrociati.

Siamo rimasti in silenzio, come senza parole. Anzi, io credo proprio che abbiamo finto di non riconoscerci, per non mortificarci. Sono rimasto lì a osservare il modo sciatto di servire che aveva, quella divina ruvidità non del tutto sopita.

Tornato a casa ero più meditabondo del solito. Mia moglie ha annunciato che a breve si sarebbero esibiti i Måneskin, ma la notizia mi ha lasciato indifferente.

«Che hai contro i Måneskin?», mi ha chiesto.

«Sembrano già Funko Pop».

Sono sprofondato in poltrona, meditabondo. Sanremo era come il banco, vinceva sempre. Allora l’ho detto. «L’unica vera rock star della serata mi ha appena servito il gelato».


Luca Ricci è autore del libro Gli invernali, edito da La nave di Teseo

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