Scavi archeologici in archivio, reperti di Ongaro e Pasolini

Domenica Reduce dalla Maratona Camilleri ieri a Torino, una giornata dedicata allo scrittore. Bilancio? Direi incerto. Buono il brunch alla Montalbano: sfincione, timballo di anelletti, caponatina e cassata alla siciliana. Mediocre il mio intervento. Esilarante il racconto di Gaetano Savatteri. Una sera a Palermo, lui e Camilleri aspettano un taxi. Arriva un tipo e comincia a gridare: «Ma lei è Camilleri! Il mio scrittore preferito! Deve farmi l’autografo. Non posso perdere questa occasione. Mi aspetta un attimo che vado a comprare un libro così me lo firma?». Camilleri gli dice di sì. Il tipo torna col libro appena comprato. Camilleri lo firma. «Grazie, grazie. Stasera quando lo vede mia moglie…», dice l’ammiratore andando via. Camilleri e Savatteri tornano ad aspettare il taxi. «Ti sei accorto – dice Savatteri – che il libro che il tizio ti ha fatto firmare non era tuo ma di Santo Piazzese?». «Certo che sì», risponde Camilleri. «Infatti, mica ho firmato col mio nome: ho firmato con quello di Santo Piazzese». Pasolini è un romanzo noir. Quanto ci ispira Gaber Lunedì Come in un romanzo di Philip K. Dick, guardo il vecchio articolo finalmente recuperato dall’archivio. Mi sembra il reperto ritrovato da un archeologo in un futuro lontano. È una pagina doppia strappata da un settimanale, che racconta un requiem. Una fotografia in bianco e nero, malinconica, occupa quasi metà dello spazio. Ritrae un uomo di profilo, su una barca, che guarda l’orizzonte. La didascalia lo identifica: Alberto Ongaro, Venezia (22 agosto 1925– 23 marzo 2018), scrittore, inviato speciale all’Europeo di Tommaso Giglio, sceneggiatore di fumetti. La foto è di Ferdinando Scianna, un maestro. L’articolo comincia con una voce fuoricampo: la mail di un lettore che ringrazia l’autore del pezzo per avergli fatto scoprire Ongaro: «La taverna del doge Loredan è stata una delle più belle esperienze della mia vita». Da qui, l’autore ci trasporta alla cerimonia funebre, appena svoltasi a Venezia, sull’isola di San Michele. Mentre è lì, ripete come un mantra l’attacco pieno di mistero della Taverna del doge Loredan: «Sempre più spesso nel luogo dove mi trovo un uomo senza volto mi compare davanti e mi si ferma accanto sempre più a lungo di quanto io possa sopportarlo». Ricorda come rabbrividì la prima volta che lo lesse, e come continua a rabbrividire ogni volta che lo rilegge. Poi passeggia tra le tombe di Igor Stravinskij, Serghej Diaghilev, Ezra Pound, Helenio Herrera, chiedendosi qual è il romanzo di Ongaro che si addice meglio a questo momento. Non la bellissima Taverna del doge Loredan. Non l’intrigante Segreto di Caspar Jacobi. E nemmeno l’avvincentissima Partita (da cui fu tratto un film con Faye Dunaway). Tutti romanzi che, anche musicalmente parlando, si potrebbero definire fughe. Alla fine opta per L’ombra abitata, che non è il racconto di una fuga, ma di un ritorno impossibile nel passato. Sono stanco. Le scoperte archeologiche rimescolano sangue e memoria. Per oggi può bastare. Voterò il partito Chivucristiano. Viva Sollima in stile Rushomon Martedì Riprendo lo studio del reperto che mi sembra ogni volta più antico. L’autore sale sul vaporetto che porta alle Fondamenta Nove, il più nordico dei luoghi veneziani, non a caso prediletto da Nietzsche. È diretto al “consuolo”, il piccolo party di congedo con i parenti del defunto. Pensa a quante volte ha fatto il nome di Ongaro alla redazione dei Meridiani Mondadori, quei volumi che vorrebbero essere un Pantheon degli scrittori. Ogni volta lo hanno guardato come se fosse pazzo. Eppure Ongaro è stato l’unico scrittore italiano che sapeva scrivere romanzi direttamente in cinemascope. Un’operazione quasi alchemica. Tre ore dopo, l’autore è sul treno per Milano e ripensa a una cosa che Ongaro gli diceva spesso. Che certi libri hanno poteri magici, sono più di un libro. Ne era convinto così come era convinto che una coincidenza non è mai solo una coincidenza. C’era un romanzo che aveva avuto un influsso arcano sulla sua vita. Era Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Ne era geloso al punto che provava fastidio se qualcun altro ne parlava. Quel romanzo, la storia che contiene, i personaggi che lo animano, erano tornati più volte in momenti fatali della sua esistenza, un contrappunto segreto. L’autore dell’articolo sorrideva quando Ongaro gli parlava così, ci credeva e non ci credeva. Ma ora non può più far finta di niente. La mattina in cui ha saputo della morte di Alberto, era davanti al computer nella redazione del giornale in cui lavora. Sullo schermo, il layout dell’articolo che aveva appena finito e che era dedicato a una nuova edizione di Sotto il vulcano di Malcolm Lowry. Per oggi può bastare. E forse non c’è più altro da aggiungere, o almeno non ho il cuore di farlo. Mi firrìa la testa, come direbbe Camilleri. È Scarpa il più grande di tutti, i necrologi a volte rasserenano Mercoledì Due cose ancora. Ongaro, che sognava di fare lo sceneggiatore a Hollywood, incontrò Faye Dunaway sul set della Partita. La diva lo squadrò a lungo e poi gli disse: «¡Qué cara de bandido!». Ongaro custodiva quelle parole tra i ricordi più cari. Se per un’attrice di quella caratura aveva una faccia da bandito, forse a Hollywood avrebbe magari potuto sfondare anche come attore. Ongareide, ultima scena. Nel 1987 Ongaro fece per L’Europeo un reportage sui luoghi di Raymond Chandler. Nel palazzo all’incrocio tra Hollywood Boulevard e Ivar Avenue, dove c’era l’ufficio di Philip Marlowe, si imbatté in una porta con la targhetta «Albert Karsa Investigations». Con la sua migliore cara de bandido, Ongaro suonò il campanello… Non voglio vedere Tre ciotole e ripenso a Diane Keaton Giovedì Mi concedo un diversivo: un frasario del campionato di calcio, una collezione delle dichiarazioni più notevoli, con scudetto finale a chi ne rilascia di più. Frasi forti della giornata scorsa: 1) «Sono un po’ preoccupato. Non accompagno un morto» – (allenatore Antonio Conte). 2) «Questa sera al mio posto si sarebbe incazzato anche Padre Pio» – (allenatore Maurizio Sarri). Non ha vinto Murakami. Quello a Krasznahorkai è anche un premio anti Orbán? Ieri Non volevo più parlare di scrittori, ma una mail rilancia l’argomento. Claudio Careri scrive: «Il suo ricordo di Pasolini è vivido e irregolare, comme d’habitude. La profezia eretica e corsara di Pier Paolo Pasolini, autentico Moloch del Novecento, soprattutto nei giorni in cui ricorre il cinquantesimo anniversario dall’efferato omicidio dell’Idroscalo, risuona attualissima. Ma il ricordo dei coevi è tipico di questi tempi ambigui e di questa vita menzognera: poco autentico, celebrativo e “becchettante, da avvoltoio”. “Bisogna avere la forza della critica totale, del rifiuto, della denuncia disperata e inutile”, affermava convintamente lo scrittore di Casarsa in una delle tante citazioni for dummies, riprese all’occorrenza». Gentile Claudio, comme d’habitude, davvero. Per risponderle, mi avventuro in un nuovo scavo archeologico in archivio. Trent’anni fa per il ventennale della morte, scrissi una cosa che cominciava così: «Un brutto destino è toccato, post mortem, a Pasolini. Ne hanno fatto un santino. Lui che non era un santo ma un poeta maledetto, della stoffa, esistenzialmente parlando, di Rimbaud, Campana e Genet. Era un marchese de Sade. Molti che lo conobbero dicono che Pasolini poteva essere molto cattivo. Una volta presentò in pubblico quel romanzo molto bello e difficile che è Corporale di Paolo Volponi, suo amico sin dalla giovinezza. Non fu una presentazione, fu un’esecuzione. Pasolini disse cose feroci. Il povero Volponi, preso a tradimento (quando si accetta di presentare un libro non se ne parla male), non seppe come ribattere. Un testimone della serata raccontò che, alla fine, Volponi – che era quasi astemio, salvo ogni tanto un bicchierino di Caffè Sport Borghetti, e tutt’al più goloso di gelati – sembrava “un alcolizzato”». Potrei continuare con la prima puntata di Pasolini Noir: «Tutto cominciò come in un racconto di Kafka. Una ragazza rincasando a tarda notte vede sulle scale uno scarafaggio gigante, si affaccia alla finestra e si mette strillare. Un ragazzo che si trova passare le rifà il verso…». Ma non ho più spazio. Stavolta la rubrica mi è venuta così. La prossima volta alleggerirò copiando De André. Lui sul diario annotava: «Torta alle more (4 persone). 1,5 kg di zucchero a velo… la scrivo un altro giorno». La letteratura è risorta. Ed è una splendida 70enne per scrivere ad Antonio D’Orrico (che risponde): lettori@editorialedomani.it