Una forma di perversione: la scrittura resta un mistero

«Vorrei soffermarmi sul mistero della scrittura, su nient’altro che questo: il gesto, la perversione, il demone che la ispirano e non smettono di fomentarla, il tempo che si prende e che a quanto pare non basta mai». Scrive così Alessandro Piperno nel preambolo alle sue divagazioni Ogni maledetta mattina – cinque lezioni sul vizio di scrivere edito da Mondadori. E bisogna dire che riesce a tenere fede al suo proposito iniziale, consegnandoci delle pagine che più che voler svelare, indugiano, carezzano, vellicano. Il mistero della scrittura, comprensibilmente, ne esce intatto, se non rafforzato. Piperno usa l’ironia e non disdegna un certo disincanto per abbordare l’oggetto enorme della sua indagine, ma è uno scrittore troppo accorto e smaliziato per credere ai suoi stessi esercizi di defascinazione. Così, ci spiattella quello che Honoré de Balzac scriveva alla sorella: «Anche se le mie opere andassero male, nessuno potrà mettere in dubbio che ho sposato bene». Ma subito dopo ci riferisce anche della purezza assolutistica di Luigi Pirandello: «La vita o si vive o si scrive». L’understatement si tempera con la sacralità (e viceversa), e il risultato è un godibile campionario sul perché gli scrittori scrivono. Già, come mai una non esigua fetta dell’umanità è caduta nelle spire diaboliche della scrittura? Innanzitutto, e a monte di ogni altro discorso possibile, Piperno sembra dirci che gli scrittori sono creature insicure. La scrittura viene sempre usata come suprema forma di compensazione per il recupero di uno svantaggio. Che sia sociale o psicologico, esistenziale o fisico, poco importa. In tal senso la citazione più disturbante è imputabile all’impavida e anticonformista Virginia Woolf: «Senza lodi mi è difficile cominciare a scrivere la mattina». L’ambizione Piperno rintraccia la prima giustificazione al mistero della scrittura nell’ambizione. Ambizione sfrenata e insicurezza cronica vanno a braccetto, e sarebbe dalla seconda che spesso scaturirebbe la prima. Niente di male, si dirà, a parte il fatto che l’ambizione tende a sfuggire di mano, non è un desiderio mansueto (a patto che ne esistano). Ci sono gli scrittori alla Francis Scott Fitzgerald che tentano invano per tutta la vita di replicare il successo ottenuto precocemente al primo colpo, oppure gli scrittori alla Saul Bellow che costeggiano il fallimento per un numero di anni troppo elevato per godersi il momento del successo meritato successo. Sia in un caso che nell’altro è garantita una buona dose d’infelicità autodistruttiva e un significativo numero di romanzi dedicati proprio al successo e al fallimento, per esorcizzare e sublimare la questione (per Piperno, resta inarrivabile Il dono di Humboldt, proprio di Bellow). L’estate sta finendo, Edith Wharton era la lettura giusta L’odio L’odio – motore molto più potente del tiepido e comune risentimento – può essere la causa di un omicidio o di un romanzo. In effetti i romanzieri che odiano abbondano, e la declinazione artistica del loro sentimento esacerbato va dall’invettiva alla satira sociale. Campioni di questa specialità sono Thomas Bernhard e Louis Ferdinand Céline, i quali, oltre a scagliarsi contro l’ipocrisia e la stupidità umana, ce l’hanno a morte con le rispettive patrie. Questo moto antisciovinista in Bernhard si abbatte sulla classe media austriaca, colpevole di non avere nessun senso artistico, mentre in Céline attacca direttamente il genio francese a partire da Michel de Montaigne, reo di aver edificato una lingua leccata e decadente. Il limite degli odiatori è però individuato da Steiner: «Il guaio dell’odio è che ha il fiato corto (…) Quando si protrae, diventa una sega monotona e mal affilata che ronza e stride senza fine». Piperno e Siti, come gli scrittori diventano bugiardi La responsabilità Ci sono scrittori terrorizzati dall’idea che la scrittura non serva a niente. Al solo pensiero dell’art pour l’art hanno attacchi d’ansia, e tutto il loro sforzo non risiede tanto nella stesura dell’opera, quanto nel legittimarla socialmente davanti agli occhi del mondo. Dare alla letteratura un senso più grande di quello meramente artistico è la missione di due scrittori diversissimi come Lev Tolstoj e Jean-Paul Sartre. Ambedue sacrificano l’arte sull’altare dell’impegno. Il russo diventerà una specie di santone convinto che la scrittura funga da tramite tra il popolo e Dio, mentre il francese un intellettuale (rigorosamente ateo) che ritiene le parole un particolare tipo di proiettile. Una presa di coscienza – per certi, compreso Piperno, una deriva – che li renderà per sempre diversi dagli scrittori recalcitranti dall’incarnare la funzione di megafono (la nemesi di Tolstoj è Fëdor Dostoevskij, quella di Sartre è Albert Camus). La conversione avviene tramite due scritti che si somigliano nelle loro prerogative d’indagare la natura specifica del lavoro umanistico. Che cos’è l’arte? si chiede Tolstoj e Che cos’è la letteratura? si domanda Sartre. Da prospettive diverse si scagliano contro l’individualismo romantico, perché se la scrittura ha un orizzonte morale esso si compirà soltanto nella consapevolezza di una collettività. Tra ansia e ottusa ostinazione, i borghesi mediocri di Piperno Il piacere «Sulla scorta di Baudelaire, Nabokov definisce i capolavori letterari meravigliosi giocattoli. Strumenti di piacere tanto sofisticati quanto inutili e perversi», scrive Piperno della sezione nella quale probabilmente si riconosce di più. Ecco che improvvisamente la reclusione nella torre d’avorio non è più un gesto decadente, ma è invece da caldeggiare. Il gioco del bambino in fondo è un gioco solitario. L’isolamento è essenziale allo scrittore che intenda la scrittura come un gioco (serio, naturalmente, ancorché privo di responsabilità sociali). La dittatura delle fascette sui libri, benvenuti nell’epoca della letteratura senza autore Ancora Vladimir Nabokov: «Costruirsi una torre d’avorio non è da tutti. Starci chiuso dentro è segno di saggezza e di profonda scienza della vita. Star chiuso in una torre d’avorio significa avere una vita propria e bastare a sé stesso». Chi scrive giocando (o gioca scrivendo) finisce con il diventare più radicale di qualsiasi scrittore impegnato. O quantomeno più nevrotico. Non è il cosiddetto disimpegno a preoccupare, bensì l’impegno esasperato nei confronti degli aspetti formali. Gli scrittori del piacere diventano spesso maniaci dello stile, esasperando il “come” e polverizzando il “cosa”. Gustave Flaubert confessava in una lettera a Louise Colet: «Ciò che mi sembra bello, quello che vorrei fare, è un libro sul nulla (…) un libro che si tenesse da solo per la forza interiore del suo stile, un libro il cui soggetto sarebbe pressoché invisibile». Per gli scrittori proustiani il desiderio non demorde mai Kafka e Proust Da ultimo, a scardinare qualsivoglia tassonomia, sottoforma di blandizia finale, Piperno si sofferma sulle figure di Franz Kafka e Marcel Proust come gli scrittori più in balia della scrittura del novecento. Anche se neppure loro conoscono l’esatta ragione per cui scrivono, quantomeno sono i più esemplari nella motivazione. Sono talmente motivati che fanno coincidere la letteratura con la vita. «La scrittura in loro è un’esigenza talmente inderogabile da compromettere tutto il resto: la salute, gli appetiti, la socialità» leggiamo. Le vite di Kafka e Proust sono anodine e stanziali, per nulla avventurose, segnate da malattie immaginarie e ubbie patologiche. La ragione è presto detta, e si può rintracciare in una pagina della Recherche: «La vera vita, la vita finalmente riscoperta e illuminata, la sola vita, dunque, pienamente vissuta, è la letteratura». Scrivere è un lavoro normale? I tic degli autori dicono di no Tasti da premere In conclusione, e ricollegandomi al preambolo di Piperno che non a caso s’intitola Il brivido ai polpastrelli, dopo tutto questo gran ragionare partendo dal presupposto di motivazioni esemplari – per quanto talvolta triviali e perfino abbiette – non c’è niente di meglio per preservare il mistero della scrittura che riportare il discorso sul concreto, precipitare nella fisiologia: come mi è capitato di sottolineare altrove, si scrive per l’attrazione dei tasti da premere. La voluttà, tutta la voluttà possibile, consiste nel picchiettare su una tastiera, raggiungendo attraverso di essa una specie di trance sciamanico, che tutto sommato è alla portata di un genio come di un dattilografo. [Missing Caption][Missing Credit]