«Ce l’hai qui, il Sudamerica, picceré: inutile leggere ‘sti libri», dice Don Alfré, mentre io sono seduta sull’erba a sfogliare Cent’anni di solitudine di Gabriel Garcìa Màrquez. Il contadino si rigira un frutto tra le mani e me lo porge.

Mi ricorda Aureliano Buendìa quando vede per la prima volta il ghiaccio, l’invenzione portata dagli zingari. Ma nel suo volto rugoso c’è anche lo stesso guizzo di Mazzarò, Mastro Don Gesualdo e persino del Senex Corycius di Virgilio, personaggi letterari intrisi di terra e sudore: nei suoi lineamenti ci sono solchi di una storia nuova che nessuno ha mai raccontato. La storia delle campagne del sud Italia che stanno cambiando volto per colpa del riscaldamento globale.

Il sud si sta tropicalizzando

La macchia mediterranea infatti sta subendo un processo di tropicalizzazione: in meno di tre anni, la produzione di frutta esotica in Puglia, Calabria e Sicilia è cresciuta a dismisura e il sud sta ridisegnando il suo profilo: non più vigne, agrumi, ulivi, ma manghi, banane, avocado, per un consumo totale stimato in 900mila tonnellate.

Una ricerca della Coldiretti ha rivelato che, negli ultimi cinque anni, in Sicilia, la coltivazione di frutti tropicali e subtropicali è passata da pochi ettari ad oltre 500: un dato importante, se si pensa che negli ultimi quindici anni  il terreno coltivato ad arance è diminuito del 31 per cento, mentre mandarini e limoni del 18 per cento e del 50per cento.

Ci crediamo protetti ma non lo siamo

In Italia pensiamo di essere relativamente protetti dalla crisi climatica, come se fosse una narrazione proiettata in un futuro evanescente, invece siamo tra i più colpiti: la crisi ha alterato la fisionomia delle campagne e sembriamo non rendercene conto, come se fossimo affetti da una cecità selettiva. Uno degli ambiti in cui quest’offuscamento è più tangibile è la letteratura, che da tempo si è allontanata dai campi e da chi li lavora.
L’agricoltura è da sempre un grande tòpos letterario: basti pensare a opere classiche, come gli idilli di Teocrito, le Bucoliche e le Georgiche di Virgilio, o all’Arcadia di Jacopo Sannazaro a fine Quattrocento, che hanno contribuito a formare il mito del locus amoenus.

Non dimentichiamo i Canti di Leopardi, così come le raccolte Myricae di Pascoli e Alcyone di D’Annunzio: la letteratura italiana, specie quella ottocentesca, è stata da sempre legata alla vita nei campi come specchio dell’esistenza: idilliaca, malinconica, grembo per ritornare all’età dell’oro.

Ma è con Giovanni Verga e il verismo siciliano che la letteratura immortala il rapporto sanguigno e terreno tra uomo e campi: personaggi come Mazzarò e Gesualdo incarnano il morboso radicamento alla terra e il terrore di morire per non lasciare la “roba”.

Negli anni, però, l’ambiente agricolo ha cominciato a diradare sempre di più la propria presenza tra le pagine, lasciando il posto ad altri settori lavorativi che hanno occupato le narrazioni. Ma questo è un momento propizio per il ritorno dell’agricoltura nelle storie: la crisi climatica sta ridisegnando i tratti somatici delle campagne e del mondo naturale, e sta creando nuove situazioni di conflitto per chi lavora la terra e se ne prende cura. E la letteratura, dopotutto, scaturisce proprio dal terreno fertile del conflitto.

Letteratura contemporanea e natura

Ma qual è, allo stato delle cose, il rapporto tra narrazioni e campagne? La letteratura italiana contemporanea sembra fermarsi a pochi autori, come ad esempio Cesare Pavese in Paesi tuoi: in quest’opera però, la campagna non sviscera tanto il lavoro contadino e i suoi antichi rituali, ma rimane piuttosto uno sfondo mitico e ancestrale. Spicca però il nome di uno scrittore ancora in vita: Ferdinando Camon, classe 1935, Premio Strega e Premio Campiello.

Nelle sue opere, come L’altare della madre, non si limita a celebrare nostalgicamente i fasti di un’età dell’oro perduta, ma analizza il mutamento della classe contadina in età contemporanea: il mondo agricolo si avvia verso il dissolvimento insieme al suo sacro sistema di valori, in favore di quella che lui chiama “la civiltà industriale della terra”.

Camon compie un passaggio cruciale, che avrebbe bisogno però di essere integrato con una mossa ulteriore, il confronto del mondo rurale con il cambiamento climatico.

In Irlanda, invece, la situazione è diversa: l’emergere dell’azienda agricola familiare è un fenomeno relativamente recente, grazie alle leggi fondiarie dell’inizio del XX secolo, ciò ha creato il mito della piccola fattoria irlandese, che ha inaugurato un nuovo e fortunato genere letterario. Tutto ciò, comunque, aggira ancora l’ostacolo, ossia il racconto di un ambiente ormai riplasmato.

Oggi l’agricoltura non ha cantori

La letteratura è da sempre una lente sul mondo, lo sguardo con cui accarezziamo le pieghe della realtà: la sostanziale assenza dell’agricoltura nella letteratura contemporanea ci restituisce uno sguardo in cui i contadini sono spariti dal nostro campo visivo; al contempo, però, non possiamo ignorare come l’agricoltura sia stata sconvolta da un problema che facciamo fatica a inquadrare.

Se il Sudamerica è arrivato qui, come dice Don Alfré, mi aspetterei di leggere romanzi che ci raccontino come è accaduto, che ci mostrino i nuovi Gesualdo e Mazzarò e le loro microstorie che si intrecciano alla storia con la S maiuscola; è possibile che in futuro leggeremo più romanzi contadini, perché l’emergenza climatica sta ridisegnando i contorni di un lembo di mondo che gli scrittori hanno disimparato a guardare.

Potremmo trovarci di fronte a un tipo di narrazione più concreta, che dipinga gli effetti del cambiamento climatico nelle vite di tutti i contadini che vivono nelle campagne del sud Italia e si rigirano tra le mani frutti nuovi, attraversando la minaccia più complessa che l’umanità si sia trovata ad affrontare.

«Chissà come ci è arrivato fino a qua». Don Alfré mi porge un altro frutto: il succo mi cola tra le mani. Lui è Mazzarò ed è Gesualdo, e tra le mani ha un prodigio che lo affascina e lo inquieta.

Nella paura che gli leggo negli occhi, c’è una richiesta: quella di raccontare la sua storia e quella dei suoi frutti nuovi, in modo da capirla tutti insieme.

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