La scuola di letteratura e fotografia Jack London è nata nel 2020 da un’idea dello scrittore Angelo Ferracuti e del fotografo Giovanni Marruzzini, con l’obiettivo di combinare in un unico percorso interdisciplinare scrittura di reportage e fotografia. Ha sede nel borgo di Torre di Palme (Fermo). Le iscrizioni per l'anno 2021-2022 sono aperte sul sito www.jacklondon.it.

Quando Pietro Ricci arriva in tarda mattinata, m’invita subito ad andare nella zona di porto dove stanno le imbarcazioni, così ci incamminiamo lungo la banchina e presto arriviamo dove è attraccato il suo piccolo peschereccio di quindici metri con il quale fa la pesca a strascico, il Rapepè, soprannome del suo bisnonno, pescatore anche lui e pioniere di una famiglia fatta di gente di mare. È un ragazzo dai capelli neri e il viso florido, indossa un giaccone scuro pesante e parla veloce.

Quando entriamo nell’imbarcazione, a poppa c’è la rete avvolta sul rullo, di lato il bagno, e avanti la piccola cabina di prua dove lui e suo fratello Gabriele vivono durante le uscite. «È tutto qui» mi fa, mostrandomi lo spazio angusto e funzionale che ospita un piccolo tavolino con dei sedili, e più avanti un minuscolo spazio cottura con i fornelli, i vani per le provviste, di lato il termosifone per riscaldarsi nei lunghi inverni freddi.

Verso l’ignoto

Esce in genere quattro volte la settimana da mezzanotte al pomeriggio del giorno seguente, «Lavoriamo in una situazione non stabile, in mezzo al mare, le cose più pericolose sono il cattivo tempo e le falle nel peschereccio». Mi dice che ogni volta che parte a bordo della sua barca è un viaggio verso l’ignoto, «Tornerò a casa questa volta?», pensa, lontano dalla città e dalla famiglia quando il Rapepè esce dal porto e comincia a notte fonda la sua lunga traversata.

Due volte si è trovato seriamente in difficoltà, lui e suo fratello non riuscivano a tornare. «Stavamo a circa tre miglia dalla costa, io in plancia e mio fratello Gabriele di fronte per farmi capire da dove venivano le onde, con un vento contro di 100 chilometri orari e un temporale arrivato all’improvviso, che era segnalato per il pomeriggio e invece è venuto giù di prima mattina», racconta, «qualcosa che non si può mai prevedere. Tutto questo sette anni fa, avevamo tre elementi addosso, vento, pioggia e mare», dice ancora per farmi capire come è stata quella lotta titanica per non affondare.

«Dopo quasi due ore di battaglia contro le onde e il vento, il cuore in gola per lo spavento, stremati di fatica e paura siamo riusciti ad arrivare sotto costa, in quel poco tempo per tenere a bada l’angoscia ho fumato frenetico venti sigarette, quasi senza accorgermene». Nei giorni successivi aveva deciso di mollare tutto: «Quel fatto mi ha segnato per tutta la vita», ammette. Ha perso anche molti amici, morti mentre lavoravano come lui, mi parla di un peschereccio che ultimamente a Giulianova ha affrontato una tempesta, e il marinaio è morto all’imboccatura del porto, «Stai per arrivare a casa e muori in quel modo» dice sconsolato.

Tragedie del mare

Sul muro che costeggia la banchina scorgo le lapidi che ricordano alcune tragedie del mare, come quella della motopesca Pinguino affondata nella notte tra sabato 19 e domenica 20 febbraio 1966 nelle secche di Capo Bianco in Mauritania, 13 morti, o del Rodi, cinquant’anni fa, la più drammatica; l’ultima della Rita Evelyn del 26 ottobre 2006 che causò tre vittime. «Oggi le cose sono molto cambiate, se non hai il peschereccio in piena efficienza non puoi andare in mare, sono tutti muniti di una zattera autogonfiabile, apribile nei momenti di pericolo, c’è una boa che permette di trasmettere la posizione in caso di affondamento, il pescatore deve essere in grado di fare tutto, dall’elettricista al frigorista, mentre prima, quindici, venti anni fa, si andava a la ventura, anche a depredare, mentre oggi si pensa anche alla salvaguardia e alla gestione del mare e di chi lavora».

Il 23 dicembre 1970, proprio nelle acque di questo mare accadde il più grande naufragio della storia della marineria di San Benedetto del Tronto, un buco nero della memoria collettiva, il peschereccio oceanico Rodi – che tornava qui dal porto di Venezia dove erano state effettuate delle riparazioni alla carena – imprigionato nella bufera, con le onde doppie che attaccavano le fiancate, dopo aver imbarcato acqua e combattuto una lotta furibonda con il mare in tempesta, non riuscì a rimettersi in asse e affondò davanti alle coste di Grottammare. La nave di 500 tonnellate fu avvistata capovolta dopo il naufragio, dieci furono i morti.

Quelli a bordo della Rodi erano marinai che si spingevano con i loro pescherecci in mari lontanissimi, arruolati alla passeggiata dell’ingaggio, tra la rotonda della cittadina rivierasca e il vicino cinema Florian. Si trattava di retieri, nostromi, capi pesce, ufficiali di coperta, ufficiali di macchina, o anche ingrassatori, mozzi, manovalanza al pesce, tentati da guadagni rapidi in tempi difficili di disoccupazione e crisi del lavoro. Gente che s’avventurava in quegli anni con solo una bussola a bordo, una radio dalle deboli frequenze che spesso si perdeva negli abissi dell’etere non riuscendo a comunicare con la terraferma, vagando nei mari per arrivare a Las Palmas, allo stretto di Gibilterra, oppure in Marocco. Dentro le imbarcazioni, come nei romanzi di Stevenson, di Conrad o di Jack London, viaggiavano ancora uomini che facevano una vita bestiale di sfruttamento, per mesi tra cielo e mare aperto in un mondo maschile ruvido, corporale, fatto di conflitti e fatica.

Difficoltà e portafortuna

Oggi i pescherecci non si spingono più in quei mari lontani, ma quello a bordo resta un lavoro molto faticoso anche nel nono porto peschereccio italiano per importanza, uno dei più strategici e produttivi dell’Adriatico, «Si lavora al freddo d’inverno, al caldo d’estate, si mangia quando non hai fame, si dorme quando non hai sonno», racconta Pietro mentre continuiamo a passeggiare nei dintorni del mercato, nello stesso palazzo dove c’è il Museo della civiltà marinara delle Marche e dove sono raccolti i cimeli di quell’epica lontana, quella che chiama «l’epopea dell’Atlantico, se ti viene il colpo di sonno quando sei di guardia lo devi vincere, devi rimanere sveglio».

Tra i lavoratori del mare crescono casi di ipoacusia, dovuta ai rumori assordanti e continue dei motori, le malattie articolari che colpiscono la schiena, le ginocchia, le spalle, tipiche del lavoro dentro la barca, oltre alle dermatiti della pelle per la prolungata esposizione ad agenti atmosferici e biologici. Però è anche il lavoro degli uomini liberi, per questo Pietro non lo lascerebbe mai, «Vivi in mezzo al mare da solo o con i tuoi compagni di lavoro, vivi lo spettacolo della natura, ancora adesso mi emoziono quando sorge un’alba, oppure quando avvisto i delfini, questo mi dà la forza di continuare». Poi cita alcuni versi di una poesia di Beatrice Piacentini, detta Bice, una poetessa che scriveva in dialetto locale nei primi del Novecento, «Questa poesia la sento dentro, sembra calzata sulla pelle del pescatore», dice emozionato, parla del mestiere del marinaio, un mestiere traditore, «è vero, perché chi intraprende questa attività, e lo fa da molti anni, ti entra talmente dentro che non riesci più a lasciarlo, sei parte del mare, della natura».

Tre anni fa, quando aveva demolito il vecchio peschereccio, aveva deciso di ritirarsi, ma alla fine non c’è riuscito, «È stato talmente forte il richiamo» dice, «che ne ho comprato un altro e continuo». Adesso non ci sono più i pescherecci atlantici dei tempi del Rodi, ormai i marinai sanbenedettesi pescano quattro giorni la settimana allontanandosi di sole tre miglia, solo alcuni effettuano una pesca più di fondale e vanno verso la Croazia su acque internazionali, acque più profonde dove si può pescare anche il gambero rosa, lo scampo, il merluzzo. Pietro fa una pesca sotto costa, «Tiro su sogliole, triglie, merluzzo, seppie, calamaro, mazzancolla». L’Adriatico è un mare pericolosissimo, con poco fondale, le onde sono più corte e più alte, crescono subito e hanno un moto molto violento.

Non si è mai portato in mare un portafortuna, confessa, al massimo non indossava i giubbotti salvagente per scaramanzia, come fanno molti pescatori, però adesso gliene ha dato uno la sua piccola figlia Carol, «Mi ha regalato Nemo, è un pesciolino di plastica, lo porto sempre con me», dice adesso compiaciuto di quel piccolo talismano.

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