Chi poteva immaginare che la carriera di Liliana Cavani è iniziata con una truffa? Avvenne all’atto dell’iscrizione al Centro sperimentale di cinematografia, nel 1960: i candidati dovevano presentare anche un proprio super8, ma lei mai aveva toccato una cinepresa. E così consegnò alla commissione un filmino amatoriale di amici, senza neppure visionarlo prima. Venne ammessa. Chissà che cosa conteneva, quel filmino: ma fa un certo effetto pensare che anche ad esso dobbiamo capolavori come Galileo e Il portiere di notte.

Chi sapeva invece che Paolo e Vittorio Taviani, per decidere quando alternarsi alla macchina da presa, ricorrevano a un segnale che solo loro potevano capire? Se a girare era Paolo, e Vittorio vedeva che qualcosa non andava, quest’ultimo tossiva e dopo un breve conciliabolo ne prendeva il posto. E viceversa. Lo stesso avveniva poi negli snervanti incontri con i produttori: un colpetto di tosse per segnalarsi l’un l’altro che la controparte andava stoppata. E poi quella festa a casa di Nino Manfredi, mentre si preparava il film di Ettore Scola Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa?: fu in quell’occasione che Alberto Sordi pronunciò una delle sue frasi più celebri e citate, quella sul prendere moglie. La conosciamo tutti: «E che mi porto un’estranea in casa?».

Testimoni

Sei travolto dagli aneddoti, mentre leggi Witness. Il cinema al banco dei testimoni: un libro pubblicato da poche settimane da PortoSeguroEditore e già in ristampa, che attraverso sessanta schede di film italiani rivela curiosità a retroscena a non finire. L’autore, Umberto Berlenghini, già autore televisivo, programmista regista e curatore di retrospettive su Sam Peckinpah in importanti festival, ora lavora in Rai, dove cura la rubrica “Cinema e Tv” della newsletter aziendale: e infatti la maggior parte delle pellicole di cui scrive è stata coprodotta dalla Rai.

Il libro si giova di una presentazione di Marco Giusti, che il cinema italiano lo conosce come le sue tasche, mentre quel “testimoni” citati nel titolo sta a indicare una comune caratteristica dei film trattati: di ognuno, infatti, Berlenghini cita i racconti di almeno una persona (regista, attore, produttore, attrezzista, costumista…) che ha partecipato alla realizzazione del film. In ordine cronologico si va da L’assassino (Elio Petri, 1961) a Sulla mia pelle (Alessio Cremonini, 2018), passando per i principali registi che hanno fatto grande il cinema italiano (Fellini, Scola, Bellocchio, Monicelli, Germi, Moretti, Troisi, Sorrentino): impossibile citarli tutti, qui c’è solo lo spazio per alcuni, scelti perché tratti da importanti vicende di cronaca. E si deve partire da un’altra frase celebre.

Un uomo

«Guerre puniche a parte, mi hanno accusato di tutto quello che è successo in Italia»: parole di Giulio Andreotti e il film ovviamente Il divo di Paolo Sorrentino. E Witness ci racconta che per interpretare il personaggio della signora Livia, l’invisibile moglie del sette volte presidente del Consiglio (che mai accompagnava in pubblico), l’attrice Anna Bonaiuto dovette basarsi su poche immagini in bianco e nero, riuscendo quindi a trarne acconciatura movenze e una insospettabile erre moscia. Si scopre poi che nel film di Sorrentino fa una comparsa anche Bruno Di Luia, celebre caratterista dei film “poliziotteschi”, ma che storici e giornalisti “pistaroli” conoscono meglio come esponente di rilievo di Avanguardia Nazionale.

Interessantissimi sono poi i retroscena di un film oggi dimenticato, ma che raccontava vicende che tanto rilievo hanno avuto anche nella nostra storia nazionale: la Grecia del colpo di Stato dei colonnelli. Il film è del 1980 e a girarlo fu Giuseppe Ferrara: è Panagulis vive, incentrato sulla figura del poeta Alekos Panagulis, simbolo della lotta alla dittatura. Arrestato nel 1968 dopo il fallito attentato contro il capo della giunta militare Papadopoulos, torturato, condannato a morte, si salvò solo grazie alla mobilitazione dell’occidente democratico, Italia in testa. Rimesso in libertà nel 1973, conobbe Oriana Fallaci che divenne sua compagna fino al 1976, quando morì in un misterioso incidente stradale.

Un uomo, straordinario best seller della giornalista dedicato a Panagulis, uscì poco prima del film. E qui sta il punto. Il libro infatti racconta anche di un pestaggio subìto dalla Fallaci da parte di un Panagulis ubriaco, che le avrebbe provocato un aborto. La famiglia del poeta protestò e sostenne invece il film. Il tutto ebbe un seguito giudiziario che si concluse solo vent’anni dopo, con la Fallaci – che aveva attaccato il film, dicendo che aveva copiato di sana pianta il libro – condannata per diffamazione e costretta a risarcire Ferrara con cinquanta milioni di lire. Tra gli sceneggiatori di Panagulis vive figura anche Riccardo Iacona, oggi popolare giornalista di Rai 3, mentre sul set, come tuttofare, figurava Dimitri Deliolanes, oggi pure lui giornalista d’inchiesta e corrispondente dall’Italia per la tv greca Ert.

Diventare Dalla Chiesa

Sempre firmato Ferrara, Cento giorni a Palermo del 1984 ripercorre invece la tragedia del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso il 3 settembre 1982 dopo essere stato nominato prefetto appena tre mesi prima, in una delle fasi più sanguinose della guerra alla mafia. A interpretare Dalla Chiesa è Lino Ventura, che prima di iniziare le riprese volle incontrare la figlia del generale, Rita, che a Roma al ristorante “Due ladroni” si ritrovò davanti l’attore vestito e truccato come il padre. E Ventura si fece raccontare tutto di Dalla Chiesa: i tic, la musica che ascoltava, persino i colori preferiti. Anche qui, nel film compaiono volti destinati a diventare noti: il giornalista Sandro Ruotolo, nei panni appunto di un cronista de L’Ora, e Luca Zingaretti in quelli di un agente.

In sede di doppiaggio, Ventura avrebbe voluto prestare la propria voce a Dalla Chiesa. E ce la mise tutta ma l’accento francese, benché leggerissimo, resisteva. Venne quindi scelto Adalberto Maria Merli, che nel film interpreta un uomo d’affari in odore di mafia. Per convincere Ventura al passo indietro, gli cantò in un francese quasi perfetto un celebre successo di Yves Montand, chiedendogli alla fine: potrei anche doppiare Montand in francese? E Ventura capì. Uomo d’altri tempi, il grande attore francese: curiosamente, nel film non bacia mai Giuliana De Sio, che interpreta Emanuela Setti Carraro, la seconda moglie di Dalla Chiesa pure uccisa nell’agguato mafioso. E si capisce: nei propri contratti, Ventura pretendeva di non dover mai baciare alcuna attrice, né tanto meno girare scene di sesso.

Quattro monaci

Le riprese furono un calvario per via delle regole di sicurezza: «Troupe circondata da uomini armati, elicotteri che volavano di continuo sul set, gente che si accalcava per assistere insieme a venditori di popcorn», scrive Berlenghini. E per la sequenza finale servirono due notti, con un cambio di location di nascosto. E sempre sul doppiaggio, Witness ci regala un’autentica chicca: «Per sé Merli utilizzò la sua normale voce, invece per il corpulento Ventura occorreva un tono baritonale e per questo, prima di ogni turno, Merli allenava le corde vocali gridando dalla finestra “Mariaaaa”. L’attore romano usò varie volte questo stratagemma; un giorno si udì una voce proveniente dal palazzo di fronte: “A Marì ’ndo cavolo stai? C’è uno che te cerca da ’na settimana, li mortacci sua!”».

Infine, I 4 monaci: chi se lo ricorda? Commedia del 1962 diretta da Carlo Ludovico Bragaglia, cala un autentico poker d’assi di protagonisti della risata: Peppino De Filippo, Aldo Fabrizi, Nino Taranto ed Erminio Macario. Trovate il film anche su RaiPlay, che offre questa sinossi: «Giocondo e Crispino, specialisti in truffe, decidono insieme ad altri due complici, Gaudenzio e Martino, di fare un colpo travestiti da frati profughi dell’Ungheria, riuscendo pure a trovare ospitalità in un piccolo convento della Sicilia. Presa confidenza con la vita monastica, il gruppo organizzerà un racket per taglieggiare i commercianti locali». Ebbene, il film è tratto da una storia vera, avvenuta in Sicilia, quando appunto quattro frati vennero arrestati e processati con l’accusa di associazione a delinquere, estorsione continuata e concorso in omicidio per fatti avvenuti tra il 1956 e il 1959.

Il processo fu contrastato: assoluzione in primo grado a Messina, condanna in appello (grazie anche a un’arringa dell’avvocato Giovanni Leone, allora presidente della Camera), verdetto poi però annullato dalla Cassazione. La condanna infine arrivò, ma a pene lievi. E in una fase del dibattimento, alla domanda se confermava o meno la deposizione rilasciata in istruttoria, un imputato rispose: «Sì signor giudice, lo confermo ma sotto la sua responsabilità». Non poteva che venirne fuori una commedia.

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