Una ragazza e un bambino accoccolati in un letto di fortuna, mezzi addormentati. La ragazza abbraccia il bambino. «Mi racconti del fuori?», sussurra il piccolo. «Il fuori è tutto nero», risponde la ragazza, dolce, mentre passano le immagini di una luminosa città della Sicilia fatta di cielo e mare azzurri e sole splendente che però, a guardarla meglio, ha qualcosa di strano. Gli edifici sono crollati, per strada non c’è nessuno, le macchine e gli autobus sono fermi in mezzo alle strade dissestate, come qualcuno li avesse abbandonati in fretta, la vegetazione cresce incolta dappertutto. «Sono tutti morti, Astor. Non ci sono i grandi, i piccoli, non c’è più nessuno. Io e te siamo vivi perché il bosco ci protegge. Dio ha ucciso tutto, buttando sul mondo la Rossa». «E noi no?», sussurra il bambino a occhi chiusi, ancora stretto nell’abbraccio della ragazza, sua sorella Anna. «No», dice Anna, e vediamo una boscaglia fitta, verdissima, «perché non riesce a vedere nel bosco». «Il bosco è magico», dice Astor, «pure tu sei magica. Tu puoi uscire, perché dio ha paura di te. Mi racconti delle buche?». Anna racconta con una voce bassa, carezzevole, mentre un disegno fatto da un bambino, forse proprio Astor, si anima, cupo e spaventoso, «È pieno di buche e ci sono i fantasmi. Ci sono il mangiare e altre cose. Scatolette di tonno, biscotti, fagioli, giocattoli e vestiti. Nel Fuori girano i giganti di uccelli. Che divorano chiunque, escono dalle montagne, e con un passo arrivano fino al mare». «Anch’io voglio uscire nel Fuori». «Lo sai che non puoi. Se superi le pezze muori» – un’altra immagine, Astor che corre nel bosco, fino a degli stracci colorati appesi a degli alberi – «l’aria per te è velenosa. Poi quando io morirò, la magia passerà a te, e potrai uscire a cercarti da mangiare da solo». Astor ha gli occhi chiusi, dice tra il sogno e la veglia, dolcemente: «Allora non vedo l’ora che muori». Anna sorride, sistema la coperta per riscaldare meglio suo fratello, e si rimette a dormire, sempre abbracciata a lui.

Questo è l’incipit di Anna, la serie creata e diretta da Niccolò Ammaniti e scritta da Ammaniti e Francesca Manieri, in onda su Sky dal 23 aprile. Anna è tratta dall’omonimo romanzo di Ammaniti pubblicato nel 2015, e se del romanzo ha l’incredibile mondo scaturito dalla fantasia di Ammaniti, le atmosfere, i protagonisti (la fantasia, la capacità di creare mondi e storie e trovare le parole e le immagini giuste per raccontarli sono da sempre le caratteristiche che ammiro – e invidio – in Niccolò), anche chi ha letto il romanzo resterà sorpreso. Non troverà sullo schermo una copia del libro.

Qui c’è l’Anna che conosciamo eppure c’è anche un’Anna del tutto nuova. Una continua scoperta; anche grazie alle scenografie, ai costumi, alla fotografia capaci di farci guardare un mondo pazzesco, in cui continuamente veniamo colti alla sprovvista da apparizioni e scelte registiche (già molto potenti nell’esordio alla regia di Ammaniti, la serie Il miracolo) che ci riempiono, letteralmente, gli occhi. Mangiamo una puntata dopo l’altra e siamo terrorizzati, commossi, arrabbiati. Vorremmo guidare questi ragazzini perduti, senza più adulti a prendersi cura di loro, e aiutarli a vivere. Ma poi, tra crudeltà, spietatezza, dolcezza, amore e coraggio – sono questi i cardini attorno a cui ruota vorticosamente Anna – ci viene continuamente da dirci quello che Maria Grazia (Elena Lietti sullo schermo), la mamma di Anna (Giulia Dragotto) e Astor (Alessandro Pecorella), ha lasciato scritto su un quaderno ai suoi figli prima di morire come tutti gli altri adulti: ci sono nuove regole in questo mondo in cui noi adulti non ci siamo più. E queste regole non rispondono ai criteri con cui siamo stati cresciuti e ci siamo preparati a crescere e invecchiare. Forse, i bambini non hanno bisogno di noi.

Dopo la pandemia

Ma cos’è successo? Quattro anni fa, la Rossa, una terribile epidemia, ha sterminato gli adulti. Sono rimasti solo i bambini. Ma anche i bambini non sono al sicuro. Appena arrivano alla pubertà, muoiono anche loro. La Sicilia – e il mondo? – è stata usurpata da una natura rigogliosa e selvaggia, e dai bambini che (impossibile non citare Il signore delle Mosche di William Golding e la trasposizione cinematografica di Peter Brook), presto dimenticate le convenzioni imposte dagli adulti e tutto ciò che c’era prima, adesso vivono come possono, tra momenti di gioco infiniti e infinita crudeltà.

Anna si è presa cura del suo fratellastro Astor dal momento in cui la mamma ha cominciato a stare troppo male. Gli ha nascosto che esistono ancora dei sopravvissuti nel fuori, perché il fuori è troppo pericoloso per lui. Poi però Anna è anche un’adolescente. Un giorno conosce Pietro (Giovanni Mavilla) e si abbandona a una giornata spensierata con lui. È l’errore fatale. Astor viene rapito dai Blu, una tribù di bambini guidati dalla malefica Angelica (Clara Tramontano). Angelica è la regina della sua roccaforte. Tutti fanno quello che dice lei. Tutti, anche la Picciridduna (Roberta Mattei), unico adulto sopravvissuto alla strage. Angelica promette: un bacio della Picciridduna ti salva dalla Rossa. Il suo esercito di piccoli accoliti s’infittisce ogni giorno di più. Perché se c’è una cosa che accomuna grandi e piccini è che nessuno di noi vuole morire mai.

L’errore fatale è quello che commetti quando ti distrai un attimo? Quando per un attimo perdi coscienza di te e ti lasci andare a ciò che vuoi davvero? Ma forse la domanda è un’altra: è davvero un errore fatale quello che costringe Anna a uscire dal ruolo che si è data (la carceriera di suo fratello, anche se a fin di bene) e che scaglia i due fratelli nel mondo, nelle sue meraviglie e nei suoi orrori? Piuttosto che errore fatale, non possiamo chiamare questo momento: libertà? 

Amore e crudeltà

Nella prima scena della serie c’è tutto il senso di Anna. Che è un’immersione nella psiche, nel linguaggio, nei gesti dei più piccoli, così come sono davvero. Per i bambini non c’è una divisione netta tra giusto e sbagliato, male e bene, ciò che si può e non si può fare, ciò che si può e non si può dire. In un momento di totale amore, un bambino può dire «Allora non vedo l’ora che muori» non perché si auguri davvero la tua morte. Ma perché tutto si compenetra con tutto, e il futuro non esiste. Così accade a tutti i personaggi, i piccoli incredibili personaggi, i piccoli incredibili attori di Anna: passano dalla crudeltà più totale, commessa come se alla fine non fosse altro che un gioco (ti sfido a buttarti nel vuoto, ti taglio un braccio, ti rinchiudo in una stanza, ti uccido) all’altruismo più totale (ti accompagno fino al cuore dell’Etna rischiando di morire sotto il sole e dentro la polvere, ti aiuto a cercare tuo fratello anche se non ho più forze, la Rossa mi sta divorando perché sto diventando grande, e vorrei solo riposare). Passano attraverso questi estremi e sono credibilissimi. Sono giusti. Sono proprio come sono i bambini. Sono come siamo stati tutti noi.

E gli adulti? Anna è costellata di piccoli flasbhack, che si annodano e intersecano col presente cronologicamente – per raccontare ciò che c’era prima della Rossa – o per affinità emotiva. Come nasce la crudeltà di Angelica, la regina più cattiva dei cattivi e più bella delle belle – anche se è nascosta sotto una vernice bianca e sotto vestiti meravigliosi (chi c’è, dentro quell’armatura?)? Chi erano i genitori di Anna e Astor? Due bravi genitori divorziati, o due egocentrici adulti incapaci di ascoltare i loro figli? Chi era Pietro, il ragazzo di cui Anna si innamora, prima di ritagliarsi un suo piccolo pezzo di mondo nell’ora, un suo piccolo solitario paradiso in cui Anna irromperà, stravolgendolo? Chi era, prima, la Picciridduna? È prigioniera adesso, che Angelica la schiavizza, era prigioniera prima, quando si era sepolta in casa da sé? Sarà per sempre prigioniera?

Il buio cupissimo e la luce splendente che fa male agli occhi non sono solo fuori di noi. Sono dentro di noi. Dentro tutti noi. Come finisce una storia così? Come finiscono le storie inventate che in realtà raccontano come siamo davvero? C’è un mare sconfinato che lambisce la Sicilia. Possiamo salpare, e rischiare, o fermarci sulla riva, indietreggiando quando arriva la risacca.

© Riproduzione riservata