Con Sette finestre ho cercato delle aperture. Lo studio è il luogo in cui si cerca di fare attenzione a una cosa. Che sia il tentativo di ritrarre una bottiglia, di registrare una canzone, di preparare un corso universitario su un autore, il diritto privato o l’endocrinologia, o naturalmente di scrivere un libro. Al centro non c’è il mondo intero, ma una cosa sola. Il mondo resta fuori, dove si compra la frutta e dove si pagano le bollette, dove ci sono gli amici e il resto della vita, anzi, tutta la vita.

Questa attenzione diventa presto un mondo a sé, una pratica quotidiana che si chiude intorno al progetto che si è intrapreso. Quello che si è immaginato ha bisogno di quella attenzione per poter esistere, per trovare attraverso il lavoro che gli si dedica la propria realtà, altrimenti resta solo un’idea, un abbozzo, un’ipotesi.

Al contrario, nell’insegnamento, ci si rivolge all’esterno. All’università si invitano ragazzi che sono attratti da una particolare area della conoscenza a entrare e condividere quello che a noi è riuscito di capire. Li invogliamo a costruirsi a loro volta un mondo. A volte dispiace strapparli da tanti viaggi e amori possibili e dirgli che nulla di quello che c’è attorno c’entra con quello che stanno cercando di capire, li si invita a fare della loro capacità di concentrazione, che implica tecniche, memoria, amore, intelligenza, un ambito limitato a un autore, un’epoca, una cosa insomma che ha limiti precisi e di fronte a cui tutto il resto semplicemente disperde.

Chi guarda uno studio da fuori e vede l’artista o lo scrittore così compreso nel proprio progetto lo accusa da sempre di chiudersi in una torre d’avorio, e certamente c’è spesso un elemento di fuga dalla violenza di tante piccole beghe quotidiane nel fare un quadro, scrivere un romanzo o respirare insieme a Mozart e Leopardi.

Esiste però anche il contrario, la fuga nella vita di ogni giorno dal sostenere lo sguardo su questioni spesso difficili, regole che ci si è imposti per costruire quello che si ha in mente e che sono parse necessarie per poter dar forma a quello che si era immaginato o per entrare in una discussione dove altri umani di grande competenza si sono impegnati a lungo, a volte per secoli interi e in angoli del mondo distanti tra loro.

In fondo è facile costruire una torre d’avorio anche costruendo la vita con qualcuno. Ci si invita a fare una attenzione che diventa esclusiva investendo le proprie risorse, impegnandosi a mettere al primo posto questo mondo che si fa insieme, limitandosi in alcune regole più o meno espresse che sono le condizioni della coesistenza. Impariamo a riconoscere le abitudini di chi vive con noi, che non ama gli ascensori o che vuole mischiare l’acqua frizzante e quella naturale, che si inquieta di fronte a certi argomenti, che si illumina se vede un bambino o un animale o che al contrario odia i gatti o i cani grossi.

Le abitudini, le maniere dell’altro sono le sue forme, e la consuetudine può essere affettuosa, tutta tesa a difendere da chi non lo conosce bene un nostro amico o una nostra amica, un genitore, un figlio o un consorte, o al contrario quelle stesse abitudini possono far perdere la pazienza, irritare per come è fatta una persona. Quella persona la conosciamo benissimo eppure non la vediamo più se non attraverso quello che già sappiamo, la presumiamo al punto di renderla invisibile.

Come le opere d’arte, anche le persone hanno una forma e possono essere rinchiuse in quel che è al proprio interno. Oppure possono aprire la finestra, diventare metafora, parlare attraverso le proprie forme di altri mondi, e di loro non ci si stanca mai, non ne abbiamo mai abbastanza, ci portano oltre se stessi all’aperto, dove tutto è luminoso e infinito.

Un altro punto di vista

Anche queste persone sono per me finestre, aperture verso il mondo. Vedere il mondo attraverso gli altri, chiedersi come immaginino loro le cose. Che è poi il cuore di ogni romanzo. Quando in Le condizioni atmosferiche ho rimesso le mani su sei romanzi che avevo scritto per lo più a Londra in una ventina d’anni, sapevo di voler rendere più fluide narrazioni che in quei libri avevano avuto forme diverse, e questo significava ridurne il carattere sperimentale di ogni libro per favorire la continuità, sapendo che in fondo i diversi romanzi avrebbero mantenuto i loro caratteri idiosincratici.

Cercare una conclusione a un ciclo, che inevitabilmente comporta una rinuncia alle diverse direzioni che si erano aperte nel percorso, è una forma di attenzione. Di nuovo, come un matrimonio che tende a far prevalere quel che tiene insieme su quel che si è aperto ad altro o ad altri nel corso della esistenza reale. Non è una verità storica che si cerca o si afferma, piuttosto una tensione formale, un desiderio di cogliere continuità e sostanza, e questo porta a non disperdersi, a raccogliersi, come in un’opera.

Tutti conosciamo queste chiusure che però fanno anche parte della nostra concretezza. Autori che abbiamo letto a fondo, opere artistiche, musicali, quadri, idee scientifiche e concetti matematici, convinzioni filosofiche, religioni, relazioni umane che ci strutturano in una qualche forma.

Per fortuna non ci sono solo le chiusure, ma anche le finestre, e le finestre si possono aprire. Da quel che siamo, come ci siamo formati o siamo stati formati, l’apertura verso il grandissimo mondo, infinitamente più ampio e interessante di quello che abbiamo conquistato con il nostro progetto, e in cui le nostre idee, quello che siamo, cerca di incontrare qualcuno, di respirare l’aria fresca di quel che ancora non è nel nostro studio. Perché quando si continua a dipingere, a far musica o scrivere, a far ricerca scientifica o stare in una famiglia, siamo presto consapevoli che quel mondo là fuori, gli altri che fanno altre cose restano distanti e desiderati, li catturiamo fin troppo facilmente nella nostra prospettiva, nel nostro modo di capire e così resta fuori la loro alterità.

E così i testi, che possiamo spiegare così bene che alla fine resta la nostra spiegazione e il testo scompare. Scompare l’alterità. Le abitudini possono diventare manierismi, dalla necessità di dare e darsi una forma si scivola facilmente in un vuoto rappresentare e rappresentarsi, ripetizioni a cui si presta sempre meno attenzione. Tutta l’esistenza, invece di essere abitata da miti e Dei che risorgono con i loro racconti in ognuno di noi, si riduce a una mera spiegazione.

Le sette finestre che ho cercato di aprire nel mio studio sono un tentativo di incontro. Sono nate come lezioni occasionali. Quando mi invitavano altre università o istituti a fare una lezione, e quindi non potevo ricorrere alla didattica di cose su cui avevo accumulato una certa esperienza e consuetudine, ero costretto a spiegare in un altro paese e attraverso l’inglese, e soprattutto in breve, un aspetto di quel che facevo.

Ho parlato così di cosa sia il tempo nella scrittura, del narrare e dell’interpretare, della bellezza dell’estraneità o dell’attrito fra pensiero critico e creativo in lezioni in cui mi rivolgevo a persone che non avrei mai più visto. A San Paolo in Brasile o Taiwan, a Haifa o Leuven e in tanti altri posti in cui sapevo non ci sarebbe stato il tempo di spiegare in trenta ore una questione, lanciavo piuttosto messaggi in una bottiglia.

Dell’amore per, dei o attraverso i personaggi per esempio ho parlato ad esempio a una società psicanalitica londinese. Sapevo che le persone a cui mi rivolgevo avevano altre competenze e che non ci saremmo più incontrati. Erano curiosi di quello che potevo raccontargli, mi avevano invitato, ma come dovevo rivolgermi a loro? Non erano studenti che volessero o dovessero fare un corso con me e quindi dovevo rinunciare alla didattica, volevo piuttosto offrire un’apertura agli psicanalisti sul mondo dei narratori, e l’ho sfruttata immaginandomi cosa ci fosse là fuori.

Un percorso

Nel tradurle in italiano e mettendole in fila, una dietro l’altra, queste lezioni hanno iniziato a delineare un percorso, a necessitarsi a vicenda, che è poi quel che si fa in un romanzo, dove un nucleo tematico e traumatico aggruma un materiale, lo tiene a sé.

Spero non troppo, perché sarebbe una mistificazione suggerire che questo itinerario sia a sua volta un mondo. Lo è un romanzo, o un gruppo di romanzi, come lo è un quadro o una sonata. Queste sono invece finestre, appunto, aperture. Cosa c’è la fuori? Anzi, chi c’è? Cosa si vede dal mio tavolino?

L’immagine di Carlo Leoni che ho usato per chiudere la raccolta lo racconta bene, semplicemente la speranza di far entrare un po’ d’aria fresca, di parlare con gli amici, di scherzare e sorridere con loro, di essere al mondo e incontrare qualcuno. In fondo è quello che si cerca scrivendo, leggendo, vivendo insieme e telefonandosi. Dove sei? Che fai oggi?


Sette finestre, di Enrico Palandri. In libreria per Bompiani

 

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