Sembra difficile poter pensare alla vita affettiva e sentimentale del clero cattolico senza che affiorino immagini estreme: il santo e il pervertito. Da un lato, la figura asessuata del martire radicalmente dedito alla causa, a soccorrere gli ultimi o a edificare spiritualmente le masse.

Uno così, dice la vulgata popolare, «non avrebbe nemmeno il tempo per avere una storia o pensare al sesso, sa stare ai patti e mantiene le promesse, compresa quella del celibato, sino al completo sacrificio di sé, all’immolazione sull’altare del dovere». Dall’altro lato c’è il depravato, il subdolo seduttore di parrocchiane in crisi coniugale, il vizioso corruttore di giovani che, approfittando dell’autorevolezza del suo ruolo e dell’ingenuità degli adolescenti, li irretisce sino a conquistarne i favori sessuali.

Paradiso e inferno

La differenza tra i due poli, tra il paradiso e l’inferno, tra la perfezione e l’infamia, è in definitiva determinata, in queste rappresentazioni così radicate nella nostra cultura, dalla forza di volontà soggettiva, dalla capacità di tenere a freno i propri istinti sessuali e le proprie necessità amorose, dal rigore di cui ci si mostra capaci nel rispettare l’impegno solenne assunto in gioventù dopo sei anni di seminario di mantenersi casti e puri, di elevarsi al di sopra delle tentazioni mondane, degli ordinari piaceri della carne.

In questo quadretto edificante (che gli stessi preti tanto spesso dipingono e che incanta tanti di noi) ci sono solo due protagonisti: il primo è il “mondo” ammaliante con tutte le sue insidie, il secondo è il prete con tutto il suo stoico eroismo o la sua fatale debolezza. In mezzo non c’è nulla.

Si dà il caso che però quel che manca sia l’elemento più importante, quel che conferisce a tutto il corpo clericale la sua cifra e la sua forma: la chiesa. Per capire il ruolo che la chiesa svolge nel quadro bisogna esaminare il problema alla radice: in che modo la chiesa educa i suoi preti? Che cosa insegna loro oltre alla filosofia e alla teologia, alla liturgia e al diritto canonico? Che parte svolge l’obbligo alla castità nel percorso formativo che conduce al sacerdozio?

Sono le domande che non vengono mai poste e alle quali ho cercato di rispondere nel libro La casta dei casti, edito da Bompiani. L’ho fatto studiando quel che si è scritto nella letteratura scientifica, ma soprattutto girovagando per la penisola in cerca di preti ed ex preti che volessero raccontarmi la loro storia e poi di psicologi, di formatori, di uomini e donne che hanno avuto relazioni con i sacerdoti che mi aiutassero a comprendere.

Un luogo protetto

Quel che ho capito è che, tolti pochi opportunisti piuttosto scafati, i ragazzi che entrano in seminario, un tempo soprattutto al “minore”, alle scuole medie, oggi soprattutto al “maggiore”, terminate le scuole superiori o più tardi, sono in molti casi giovani fragili, insicuri, timorosi di non farcela a stare a galla in un mondo competitivo come il nostro, dominati da madri devotissime, entusiaste all’idea di avere un figlio prete e molto spesso invadenti e castranti.

Il seminario attrae questi ragazzi perché è un luogo protetto, nel quale loro non devono preoccuparsi di nulla. L’istituzione fornisce tutto quello di cui hanno bisogno e organizza la loro esistenza in ogni dettaglio, per usare le parole di un sacerdote formatore che ho intervistato, la riempie in ogni interstizio.

In questa logica, sono le parole di un altro prete: «I seminaristi sono soggetti da “resettare” e “riprogrammare”, persone dentro cui “buttare ogni genere di roba, ogni sorta di iniziativa”».

Le giornate in seminario assomigliano a quella che mi ha descritto don Franco, prete ora cinquantenne, entrato in seminario sin da ragazzino: «Ci svegliavamo alle sei e trenta, alle sette ci riunivamo per la preghiera (lodi, meditazione o messa). Poi facevamo colazione in comune e dopo andavamo a scuola (con insegnanti quasi sempre preti), sino alle 12.45. Alle tredici pranzavamo con un menù unico, senza scelte. Dopo pranzo avevamo un’ora di ricreazione, dedicata soprattutto ad attività ludiche (rigorosamente divise per classe) o al passeggio. Si studiava dalle 14.45 alle 16.15 e, dopo una ricreazione di trenta minuti, dalle 16.45 alle 18.30. A quel punto arrivava il momento dei vespri o della messa. E del rosario. Alle 19.30 si cenava, sempre con un menù unico, privo di scelte. Dopo cena avevamo un’ora di ricreazione libera e infine qualche attività culturale comunitaria. Alle ventidue ancora una preghiera e poi tutti a nanna».

Senza libertà

Anche lo studio molto raramente rappresenta un vero scoglio per i seminaristi. I professori sono pronti a venire in soccorso degli studenti in difficoltà e può anche capitare che siano i vescovi bisognosi di nuovi funzionari a mettersi in mezzo, come è capitato a un docente che un giorno ricevette la telefonata del suo vescovo che lo pregava di essere meno severo con un seminarista, «perché – argomentava – sai bene anche tu quale è la nostra situazione in diocesi. Non posso certo rinunciare a ordinare prete questo ragazzo perché non passa il tuo esame».

In definitiva, i seminaristi dall’istituzione ricevono una protezione integrale, ma in cambio devono donare la rinuncia altrettanto integrale alla loro libertà, alla soggettività, alla creatività.

Nelle lucidissime parole di un professore: «L’afflizione è conseguenza della totale dipendenza del seminarista dall’istituzione, della sua assoluta mancanza di libertà e di mezzi propri e viene prodotta piuttosto facilmente: ad esempio, punendo anche il minimo accenno di autonomia e di intelligenza critica. In generale, ciò che viene castrato nei ragazzi che passano di qui è l’immaginazione, la capacità di pensare al futuro e di pensare al proprio futuro. Il seminario, da questo punto di vista, è un luogo che anestetizza, che addormenta, paralizza l’immaginazione. Per recuperarla non resta a chi sta lì dentro che andare indietro con la memoria, tornare, con un’invincibile nostalgia, alla vita precedente all’istituzionalizzazione. Quello che fanno i detenuti per non impazzire durante la carcerazione».

La sessualità

Quel che certamente resta fuori dal percorso formativo sono i temi della sessualità e dell’affettività. Non che questi temi non vengano affrontati sotto il profilo teorico, con un profluvio di nozioni astratte sull’amore, il volersi bene, la relazione e così via. Quel che viene tassativamente escluso sono i concreti tormenti della carne o del cuore, i desideri, i sogni, gli innamoramenti, l’eccitazione sessuale, le emozioni.

Tutto questo un seminarista può condividerlo al massimo con il suo padre spirituale, cioè con colui che ne sorveglia per conto dell’istituzione i progressi e gli insuccessi nella formazione del carattere clericale. Confidarsi con i compagni è decisamente più rischioso: i delatori sono sempre in agguato in un luogo come il seminario e raccontare un’esperienza amorosa alla persona sbagliata può portare direttamente all’espulsione, dal momento che l’aver violato pubblicamente la norma che impone la castità costituisce il reato più grave per un seminarista, la prima causa di allontanamento.

La conseguenza principale di questa situazione consiste nel fatto che sesso e amore sono vissuti come intrinsecamente peccaminosi e pericolosi, come mostri da tenere a bada se si vuole diventare dei bravi sacerdoti. In questo scenario interiore, anche un atto come la masturbazione solitaria diventa, come mi ha raccontato don Armando ricordando i tempi del seminario, «un tormento terrificante. Pensavo che se mi fossi masturbato non avrei potuto fare la comunione e avrei dovuto prima confessarmi. E dato che mi toccavo praticamente tutti i giorni, ero entrato in una sorta di mostruosa circolarità: mi toccavo e dovevo confessarmi. Il prete che mi confessava non faceva una piega, ma io ero distrutto da quella trappola.

Mi sentivo dilaniato, dentro una sorta di prigione psichica. A un certo punto fui io a interrompere quel circuito: continuai ovviamente a masturbarmi, ma decisi di non confessarmi più, di infischiarmene e di fare lo stesso ogni giorno la comunione».

L’azione repressiva

Gli effetti di questa micidiale azione repressiva combinati con quelli che derivano dal sistematico soffocamento di ogni forma di dissenso e dall’esaltazione del conformismo e della disciplina producono effetti diversi. Nella maggioranza dei casi, i futuri preti si comportano come il giovane masturbatore appena citato: capiscono che le norme non sono poi così importanti, che per sopravvivere, per non impazzire, vanno serenamente ignorate e aggirate e iniziano a costruirsi un’esistenza propria, non solo onanistica, una doppia vita, talvolta molto intensa, con molte relazioni, tenuta al riparo da sguardi indiscreti e resa possibile dalla grande libertà di cui godono una volta usciti dal seminario.

Nel migliore dei casi il cinismo e la doppiezza riguardano solo la vita sessuale e affettiva, ma spesso purtroppo si estendono a tutto il resto: alla gestione del denaro, agli aspetti spirituali, eccetera. L’ipocrisia diventa uno stile di vita.

In altri casi, le cose non vanno così bene e la dissimulazione prende strade diverse dal semplice cinismo manipolatorio per diventare supplizio, depravazione, violenza, frutti avvelenati di una formazione clericale che, centrata sul celibato obbligatorio e la castità, rischia di avvelenare l’intera società corrompendo anche quel che di buono la chiesa fa per quest’ultima.

Non è venuto il momento di discuterne seriamente?

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