Dunque ci risiamo. Pronti a ricominciare a guardarci allo specchio invertito dei nostri pensieri soli e sanificati. Ma è autunno, la discesa verso il buio è nel suo pieno e nonostante l’orizzonte natalizio – per qualcuno agghiacciante – l’obiettivo non è mai sembrato più irraggiungibile. Il delizioso autoinganno dell’avere più tempo per se stessi e per fare tutte quelle cose che mannaggia non avevamo avuto il tempo di fare, a questo giro non reggerà. E tuttavia questo è un tema da privilegiati, perché la maggior parte di noi avrà a che fare con un altro pensiero, decisamente più concreto, ovvero arrivare alla fine del mese, una fine del mese allungata e dispersa in giorni tutti uguali, resi ancora più vuoti dall’impossibilità di fare il proprio lavoro, di non poter essere e, dunque, non poter nemmeno avere.

Siamo tutti padroni

L’idea stessa di lavoro si trasforma, e non parlo dello smart working. Parlo di coloro che non possono trasformare la propria opera in lavoro in remoto. Per loro, il rapporto con la realtà si altera irrimediabilmente, nell’elisione di quella dialettica che sta a fondamento del concetto stesso di lavoro. Torna in mente il rapporto servo-padrone nella Fenomenologia dello spirito di Hegel, nella quale a esemplificare ciò che sarebbe divenuta una delle accezioni di “autenticità” nel Novecento, viene posto il lavoro del servo come rapporto diretto e privilegiato con la realtà. Egli la modifica e ne trae prodotti che poi il padrone consuma. Facendo ciò conosce e si riconosce. Il padrone, non avendo altro rapporto col reale che il consumo di ciò che il servo ha prodotto per lui, non raggiunge sé stesso, la realtà e, in senso più ampio, l’essere. Ora anche i “servi” sono deprivati del rapporto col reale, e per questo, deprivati del loro essere. Siamo divenuti (quasi) tutti “padroni”, di nulla, naturalmente, se non di un tempo irreale.

Usare il tempo farlocco del lockdown per fare ciò che avremmo voluto – e subito si sentono aleggiare le frasi d’occasione, leggerò, guarderò più serie (Nanni Moretti ha raccontato che durante il primo lockdown ha visto tutta la serie Mad Men, chissà cosa gli è rimasto di quell’esperienza) studierò, imparerò a cucinare alla moda dell’India del sud, inizierò a fare Kokedama, a tagliarmi le unghie al buio, i capelli da solo, e i peli sotto le ascelle strappandoli uno a uno, sì, vabbè, dai, già detto, forse già fatto, non funziona.

Penso ad alcune mie privilegiatissime conversazioni con Ermanno Olmi, il santo bestemmiatore, artista eccelso e uomo straordinario che con gli occhi azzurri e liquidi, già provato dalla malattia ma ancora vivo, vivissimo, ben più vivo di me, mi parlava della sua frase sui libri e sull’amicizia, oramai giustamente nota: «Tutti i libri del mondo non valgono un caffè con un amico».

La frase è pronunciata dal novello Cristo di Centochiodi, interpretato da Raz Degan (perché a Olmi interessavano gli uomini, non la loro reputation) che finiva col vendicarsi della cultura inchiodandola letteralmente al pavimento di una sorta di biblioteca.

Me ne parlava con l’animo di un uomo che era nato sulla terra, che con la terra aveva un contatto reale – quello del servo – e che anche per questo viveva la sua fede in modo personale e fisico e così la sua relazione con gli umani.

Quella terra, ora, ci manca. Non che non fosse già friabile, o addirittura inesistente per molti di noi, compreso chi scrive; ma ora ne siamo deprivati per decreto e non per abitudine o accettazione supina della frammentazione delle nostre storie di vita in una unica e sola meta-narrazione liberal, narcisistica e totally tech.

La crisi del cuore

In tempi di elezioni americane, torna utile ricordare il discorso del presidente americano Jimmy Carter, ricordato da Mattia Ferraresi nel suo libro Solitudine. Di fronte alla necessità di parlare alla nazione della crisi energetica – siamo nel 1979 – egli decise di non essere rassicurante, al contrario di mettere in evidenza quale fosse il male reale della società che gli era toccato in sorte di guidare.

«La minaccia è quasi invisibile. È una crisi di fiducia. È una crisi che colpisce il cuore, l’anima e lo spirito della nostra volontà. Vediamo questa crisi nei crescenti dubbi sul significato delle nostre vite e nella perdita di una unità d’intenti per la nostra nazione. L’erosione della nostra fiducia sta minacciando la stoffa politica e sociale dell’America».

Quella solitudine, questa solitudine (non toccare, non essere toccati; non vedere non essere visti; non sentire l’odore, non emanarne alcuno) è quella dell’albero che cade nella foresta senza che nessuno lo oda. Una solitudine senza voce e per questo ancora più reale – perché l’albero cade anche se nessuno se ne accorge – e ogni albero è ben distante dagli altri, in modo che nessuno di essi possa “sentire” il fratello che cade laggiù.

Di caffè con gli amici non se ne parla e allora a che mi serve leggere e leggere ancora? A che mi serve scrivere? A che mi serve alzare ancora la mia dose quotidiana di news e Twitter feed quando ormai sono vicino a un’assuefazione tale da non trarne nemmeno l’istantaneo beneficio del rilascio immediato di dopamina ogni volta che qualcuno mi dice “mi piace”? Siamo soli, vabbè, sai che novità, ma ora lo siamo per decreto, per sacrificio, per condanna. Le comunità che a stento ancora tenevano botta, ora sono per decreto nullificate.

Ci siamo raggiunti grazie a una pandemia, abbiamo raccolto quanto seminato negli ultimi trent’anni grazie a una particella grande meno di un micron che se n’è fottuta del futuro, dei razzi spaziali di Elon Mask, delle connessioni da un giga al secondo e ci ha detto, ecco a voi, avete tutti gli strumenti per vivere senza toccarvi, vediamo come ve la cavate.

La piccola e invidiabile particella virale, che condivide in modo piuttosto ingombrante il nostro spazio vitale, andrebbe antropomorfizzata come se fossimo dei primitivi di fronte al mistero del grande sole lassù in cielo. Vorremmo parlargli, dargli uno scopo e una ragione, sapere perché.

Non ci si abitua alle leggi della natura, la ribellione rimane viva, inevitabile. Ed è una ribellione muta e solitaria anch’essa, alla quale non sappiamo dare voce, ammutoliti dalla sua ineffabile invasività, dalla nostra capacità d’espressione davvero limitata, quando davvero sarebbe importante riuscire almeno a dire, ché null’altro ci è rimasto. E allora non diciamo e non beviamo caffè con gli amici, celebriamo la nostra solitudine che già era e ora è ancora di più, come se avesse raggiunto un livello superiore di realtà.

Occupare lo spazio

Il lavoro da fare è imparare a occupare lo spazio della solitudine, che è strettamente connesso a quello dell’incertezza, che potremmo certamente elevare a definizione del nuovo secolo, nel suo muoversi in due direzioni contrarie; da una parte l’incredibile salto evolutivo dell’èra digitale, che non occorre riassumere qui e dall’altra parte l’escalation di instabilità partita col botto dell’11 settembre, figlio illegittimo della caduta del muro di Berlino.

E in tutto questo, noi, più ancora i più giovani tra noi, siamo la generazione che si annoia. La noia, versione laica e novecentesca della solitudine, ha cambiato forma. La parte di noi che anneghiamo volontariamente nel mare magnum dello stimolo digitale non è il tutto – anche ci sembra tale. Allenati ad assecondare la sequenza ritmata dei micro stimolo che ci produciamo da soli, masturbandoci sui social, scambiamo quel fare con l’essere.

I più fortunati di noi nel frattempo, pensano. Gli altri si annoiano. Il rapporto tra noia e solitudine è un legame incestuoso e secolare. La noia – quella banale, il non vedere l’ora che il tempo finisca, che arrivi qualcosa, qualsiasi cosa a toglierci dallo stato in cui siamo – è solitudine. Succede quando non ci sentiamo parte di qualcosa. Quando siamo soli, di fatto. Quando la comunità viene a mancare.

Ora, la situazione attuale colora la noia di paura, avvicinandola alla nausea sartriana o detto più semplicemente, all’angoscia. Quella noia impaurita è il non veder l’ora che qualcosa finisca elevato alla seconda, e non importa che il tempo che vogliamo che passi in fretta è tutto fuorché infinito, non importa se ci auguriamo che sia il nostro tempo, quello che ci è toccato di vivere, che vogliamo consumare in fretta.

Lo sacrificheremo volentieri, quasi un gesto suicida, perché è il nostro tempo e non ne abbiamo un altro. Ma d’altra parte è come se sacrificassimo una parte del nostro tempo per aumentare il tempo di tutti, la somma del tempo che resta a tutti noi. Per questo stiamo in casa, da soli, ad annoiarci o penare preda dell’angoscia. Per aumentare il tempo di vita della società intera.

Ma questo sacrificio non lo sentiamo. Dovremmo imparare da noi stessi, apprezzarci, anche in mezzo al dolore e adesso – se non ora quando – ripensare al nostro vivere comune, senza più darlo per scontato e accettando che esso è gravemente minacciato per non essere ancora più soli quando tutto questo diventerà normale.

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