Nei giorni scorsi, i giornali – che talora trattano ancora ciò che viene immesso nel flusso digitale come un mondo a parte, costituito da pattume-gattini-un bel gol-un bikini-risse adrenaliniche da cui tirare fuori il peggio, titolando con locuzioni come “il popolo del web” o “indignazione-mobilitazione social” – hanno ripreso la notizia della morte di un uomo poco più che quarantenne, Omar Palermo, che si era guadagnato una certa fama su YouTube perché, senza montaggi né post-produzioni ma solo accendendo e spegnendo la telecamera di un telefono appoggiato sulla cerata del tavolo in cucina, si produceva in mangiate orgiastiche con pubblico da canale nazionale.

Un chilo di tiramisù spazzato in venti minuti, 400mila visualizzazioni. Numero 43 pezzi di Bounty (lo snack al cioccolato e cocco, sgarro ultradolce in voga dagli anni Novanta), 700mila. Per cinquanta merendine Pan di stelle, 800mila. Il video in cui si riesce a scofanare, con agio da metter soggezione alla fagiolata di Terence Hill in Trinità, due chili di marmellata all’arancia e «un pollo rafforzante» (il Palermo era capace di una certa autoironia) ha sfondato il milione e mezzo di visite. Roba da far venire il diabete allo schermo.

Nei mesi della sua assenza, si erano costituiti club spontanei di fan, alcuni dei quali si addentravano nella provincia di Cosenza alla ricerca dell’abitazione del maestro – così lo chiamavano – per avere notizie sul suo conto, e lasciargli in dono vettovaglie con la speranza di ritrovarle in una delle sue sfide alimentari.

Farne un mestiere

Certo, si potrebbe liquidare la questione con un richiamo alla stupidità umana, a una forza di gravità che attrae irresistibilmente la gente verso il basso e, in effetti, riguardando certi video la tentazione di fermarsi qui è forte. Oppure si può grattare un po’ la superficie delle cose.

Thomas Marenduzzo è un ex cameriere padovano che, un bel giorno, ha deciso di dividere la sua vita tra le sessioni in palestra e una serie di mangiate ciclopiche, a dispetto della stazza da fantino, con cui si è guadagnato un seguito notevole. Con il nome di Thomas Hungry, e un lavoro professionale di confezionamento delle sue performance, ha sbriciolato interi menu di vari ristoranti, bistecche T-bone da tre chili, una coppa di gelato da quattro, tutti i menu McDonald’s in un colpo, duecento bignè, un paiolo di carbonara da cambusa che manco Obelix, una fetta di formaggio lunga un metro.

Una sorta di pioniere del genere è lo statunitense Adam Richman, attore e volto televisivo diventato celebre per una serie dal nome Man versus food: il tizio girava gli Stati Uniti accettando le sfide alimentari più improbabili e insidiose per gli esami del sangue. Dopo qualche anno di scorribande tra bidoni di salse in cui intingere gamberi fritti, burritos più pesanti di un bambino di sei anni, omelette con ventiquattro uova e tre chili di straccetti di manzo infilati nel mezzo, quattrocento ostriche ingurgitate in un’ora, il programma finì nel 2012 quando il suo protagonista venne internato in una clinica con problemi di trigliceridi e depressione, scacciati con una dieta utile a levarsi di dosso trenta chili di zavorra e di incubi a forma di hamburger.

«Magna, spigni, viaggia»

A questo punto sarebbe interessante sondare la reazione di ciascuno: dalla repulsione a quel mezzo labbro arricciato che significa, in sostanza: sì, è una schifezza. Una sonora porcheria. Ma lo guarderei, se già non l’ho fatto. E stando lì, a rimirare quelle bocche che si ingozzano e triturano per ore, penserei che da piccolo pure io – e mica una volta sola – avevo sognato di assaltare il bancone del gelataio e finirmi tutta la vasca dei gusti al cioccolato a colpi di mestolo, altro che il cono con tre misere palline. O di buttarmi in una vasca olimpionica di patatine, o di crema al cioccolato, o di panna; o ancora, di farmi recapitare un prosciutto crudo staccato dal gancio e farlo fuori con un coltellaccio da samurai, con tagli da cameriere del churrasco, da cima a fondo. Senza ritegno, fino allo svenimento. A proposito: Palermo si era premurato di fare qualcosa di simile con un salmone affumicato intero, e senza batter ciglio.

Come Marenduzzo, altri ci hanno costruito un mestiere, sulle ingozzate selvagge: c’è un Giovanni Fois che ha riassunto il senso della sua vita in tre concetti («magna, spigni e viaggia», cioè abbuffati fino allo svenimento, fai un sacco di palestra e il terzo si capisce da sé). E ci sono persone che ritengono assolutamente meritevole seguirlo tra un ruminare e l’altro, distraendosi con qualche immagine della sua nuova casa – pagata anche dalla fedeltà dei follower che fanno incassare percentuali sugli spot e collaborazioni con le aziende – o di un viaggio esotico. 983mila persone, per la precisione. L’account di palazzo Chigi, per dire, ha 181mila iscritti.

La massa si congratula per le sue performance e celebra quelle più audaci: come la volta in cui cucinò una lasagna dolce (sic) farcita con tutta la linea di dolciumi Ferrero. «Praticamente è come realizzare il sogno di un bambino», disse il Fois durante la maratona da 20mila calorie, centrando più o meno volontariamente il senso del tutto. «Sì, un bambino che campa poco», gli faceva eco il socio seduto accanto durante la cerimonia mandibolare.

Guardare

Magari Palermo, alias Youtubo anche io ed emuli sono la faccia amatoriale il primo, commerciale gli altri di una storia che lega l’uomo al fascino proibito dell’overdose di cibo, irresistibile per chi ne è protagonista ma, sembra di capire, affascinante anche per coloro cui viene riservato il ruolo più triste rispetto a una tavola imbandita di qualunque commestibile: guardare.

Ma l’uomo è anche guardone. Era il 1973 quando Marco Ferreri, con La grande abbuffata, decise di far suicidare i suoi quattro uomini – Mastroianni, Tognazzi, Noiret e Piccoli – non con pistole, corde, gas di scarico, medicinali o salti nel vuoto. Ma con strumenti lesivi come un gigantesco paté di fegato impiattato a mo’ di cupola di san Pietro.

Certo, Ferreri faceva arte, gli eater sono più inclini a suscitare ribrezzo. Né la loro è una rivisitazione consapevole della cena di Trimalcione del Satyricon, e neppure della leggendaria spaghettata di Alberto Sordi in Un americano a Roma: la maggioranza assoluta di questi professionisti dell’ingordigia non denuncia percorsi di studio avvincenti, anzi. Si districa molto meglio nell’impresa di azzannare il panino-infarto, un mostro di carne e formaggio fuso alto come una torta nuziale e largo come un salvagente, che nell’azzeccare due congiuntivi. Eppure, alcuni tra loro richiamano folle trasversali. Compresi coloro che non ammetterebbero mai di farne parte. Come chi firma.

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