È il 3 novembre del 1951 e Sibilla Aleramo ricorda nel suo diario il quarantacinquesimo anniversario dell’uscita del suo romanzo Una donna e aggiunge: «Commemorato in silenzio e solitudine».

Proprio un anno prima è uscita una riedizione del romanzo per l’Economica universale Feltrinelli con l’introduzione di Emilio Cecchi; introduzione che l’autrice aveva sperato facesse da veicolo per far tornare in luce questa sua opera e si era impegnata a leggere e rileggere le bozze del libro, accompagnata da una profonda malinconia. Il suo lavoro, anche se portato a termine da sola e senza clamore, è ancora considerato un segno preciso della letteratura italiana, un alveare di temi che anticiparono molti dei dibattiti intorno alle donne dei decenni successivi, alcuni dei quali presenti e discussi oggi.

Riaprire quel libro vuol dire muoversi tra gli intricati passaggi della vita di una donna, che attraverso l’autobiografia ha raccontato in che condizione fisica e morale vivevano le mogli e le madri del nostro Novecento. E mentre ci parla del padre, della madre, dello stupro, del matrimonio, dei tentati suicidi, dell’abbandono del figlio, come scrive Cecchi appaiono in controluce «il rudimentale socialismo di provincia; i tentativi di colonizzazione industriale dal settentrione verso il mezzogiorno, e le incomprensioni e i contrasti regionali; i primi periodici femministi, a mezz’aria fra mondanità e libero pensiero; il dilettantismo di slavati intellettuali progressisti e cosiffatte “belle anime”».

Sibilla Aleramo racconta nel romanzo il mondo del lavoro nella fabbrica, l’idolatria poi svaporata nei confronti della figura del padre-padrone, la rivalutazione della madre – pallida, cagionevole, depressa, matta – fino a sentirla simile e affine, la scoperta di una maternità che divide in due il tempo della donna tra la creatura generata e la voglia di libertà e autonomia, l’ipocrisia della moda femminista di alcune riviste, l’anelo costante verso l’amore e la necessità della fuga, il ruolo essenziale della lettura e della scrittura.

Una donna è il romanzo della prima e più sacrificata, drammatica vita di Sibilla Aleramo quando ancora era Rina Faccio, e quando non si era gettata nel mondo e nei suoi turbinosi amori per vagabondare tra terre e sentimenti. Si tratta di sicuro di un’opera d’esilio, di stacco e lontananza dal proprio sé nella costrizione di un matrimonio-prigione talmente stretto da soffocare ogni desiderio e aspirazione, nella violenza e gelosia di un marito che ha il possesso come unica espressione di vicinanza, nella perdita di coscienza che porta fino al tentativo di ammazzarsi con il laudano e porre fine allo strazio quotidiano delle percosse e degli insulti.

Cresciuta accanto a un padre intelligente e dalla forte personalità che la trattava come pari, la faceva leggere e ragionare, e che la accolse a lavorare ancora bambina della fabbrica di vetri che dirigeva, Rina si sentì fin da piccola mossa alla conoscenza. Questo spirito bambino curioso ed effervescente, lei stessa lo definisce «libero e gagliardo», uno spirito che ha spesso rievocato nel corso della sua vita, nei momenti più bui, per ricordare la preferenza che il padre aveva per lei, la grazia che sentiva di possedere, la sua intelligenza senza contaminazioni. Il primo rapporto amoroso è quindi quello col padre, figura immensa per lei, intoccabile.

Un uomo tirannico in ambiente lavorativo che faceva lavorare fuori legge molti minori e impugnava la pistola contro gli scioperi degli operai. Il lavoro però è fonte di entusiasmo per Sibilla, al seguito di questo padre tanto amato, «ero un individuo affaccendato e compreso della mia missione» scrive proprio lei, ricordando che aveva un caschetto da maschio e si sentiva pari ai giovani che le erano colleghi.

La fabbrica inghiottiva la vita di padre e figlia ed era «un esser gigantesco», a cui entrambi ormai erano dediti trascurando la dimensione della casa. La madre intanto era instabile, avvilita, anche lei esiliata in una unione non cercata, con un uomo che non aveva alcuna cura di lei e che la tradiva sul posto di lavoro, come in seguito scopre la stessa Sibilla.

Sono le otto di un mattino qualunque quando Rina si sveglia, si affaccia nella camera dei genitori e poco dopo la madre è sparita: si è gettata dalla finestra. In tanti corrono alle urla e la recuperano dalla strada: «E io vidi il corpo di mia madre portato da due uomini». La madre debole e morente, la sua mano esangue che spunta dalla veste bianca e quel tentativo di morire che mostra la prima falla nell’infanzia viva e perfetta di Rina. È l’inizio del calvario della madre, che verrà presto internata, probabilmente contro la sua volontà, e resterà chiusa per venti anni nel manicomio di Macerata, fino alla sua morte.

È il 1892 quando la vita di Rina è colpita ancora e cambia rotta in maniera definitiva, viene infatti violentata da un collega di lavoro che l’anno dopo sarà costretta a sposare e da cui avrà un figlio, Walter. Lo stupro è solo accennato nelle pagine, ma dura e precisa è la descrizione del tono che cambia nel ragazzo, fino a poco prima quasi giocoso e divertito e poco dopo invece «insolito, brutale». La violenza arriva inattesa, fulminea, mentre sono in ufficio, l’uomo usa uno sgabello per piegare il suo corpo e fruga sotto alle vesti aprendole. Rina è quel corpo rovesciato e sente nella carne la primissima prova di una relazione che non avrà mai momenti di sollievo, ma sempre ripeterà questo schema oggettivante in cui lei sarà solo una bambola da spogliare appoggiata a uno sgabello.

Sibilla diventa donna a causa di quel gesto e sente presto la morsa dell’appartenenza, dell’essere di qualcuno che di te può disporre e che ti può governare. Il gesto dello stupro è infatti sempre espressione di un potere di possesso assoluto, in cui l’atto sessuale, che dovrebbe prima di tutto essere libero e consenziente, diventa invece tramite della sottomissione, della cancellazione vitale dell’altra. Subito dopo anche lui appare smarrito e giunge le mani come a volersi scusare nel vederla disfatta e atterrita. In questa scena si fa largo così il tema del consenso, di quei sorrisi e scherzi regalati al ragazzo che sono sembrati un lascia passare per l’atto finale. «Penso m’amasse un po’ come cosa sua, una proprietà» ancora nella donna di fine secolo c’è il dubbio che sia possibile una forma d’amore per una donna resa oggetto e proprietà, che quello sia il sentimento lecito del matrimonio.

La nascita del figlio le dà un nuovo senso alla vita, ma l’essere madre la divide in due, la rende creatura bifronte. Una scissione che non ha mai smesso di avere peso nella vita delle donne di tutte le epoche, soprattutto quella più contemporanea. Da una parte madre e dall’altra donna, quasi le due cose fossero socialmente così difficili da esistere insieme senza dolore. La parte madre sente di avere nel figlio «uno scopo all’esistenza», ma la parte donna pensa all’«estrinsecazione artistica», alla lettura e poi alla scrittura di un libro, alla propria affermazione e libertà. Ci sono quindi sacrificio ed egoismo che stanno nella stessa persona e che lottano, l’amore per il figlio lei lo sente come un annullamento di sé stessa, la fine dei suoi desideri da essere autonomo (in me la madre non si integrava con la donna). Da qui nasce la tesi perno del libro che la madre dovrebbe invece essere una donna, una persona umana, e come tale la società, la famiglia, la politica dovrebbero trattarla.

La scissione a questo punto diventa ferita profonda: più la lettura e la scrittura si fanno largo nella sua vita, mentre scopre cos’è il femminismo e cosa l’emancipazione, più crescono le sevizie in casa, l’insofferenza del marito, la sensazione di Rina di soffocamento e di star vivendo una vita non sua.

La scena del tentato suicidio – mimesi materna – viene riportata tra i pensieri confusi sul figlio, che sarà «buono e grande» in un futuro senza di lei, una profezia, perché Rina sopravviverà a quella boccetta di laudano ma deciderà per sé una vita lontana dal figlio. Da quel momento si rincorrono nel romanzo le parole “lotta”, “duello”, “rimorso”, “annichilimento”, “malessere”, “sacrificio”, “umiliazione”, un lessico della impossibilità radicale a restare in quella situazione e dello spasmo verso l’esterno.

La questione femminile è esplosa in Italia alimentata dalle idee post unitarie, mazziniane e anarchica e soprattutto dall’ingresso massiccio delle donne nelle fabbriche e dalla loro uscita dalle case per partecipare all’economia del paese. Sibilla va a Milano e incontra tutto un mondo nuovo fatto di riviste, scrittrici, idee e dibattiti. E se Aleramo non si può considerare una femminista militante né una donna con delle precise idee politiche, di certo riporta la fascinazione prima e il cambiamento reale poi che le idee femministe ebbero anche nelle donne comuni, ingabbiate in situazioni di vita che allora sembravano condanne senza appello. Per quanto il suo sia un femminismo poco fattivo le sue considerazioni restano argute e valide fino al presente, come quando si rende conto che molte riviste sono state fondate per cavalcare la moda delle donne emancipate, e che queste stesse riviste sono di proprietà di uomini disinteressati alla causa e gestite da donne disilluse che danno all’argomento la stessa valenza che si darebbe a qualsiasi oggetto di moda (il modello era giunto dalla Francia come per i cappellini).

Mentre Aleramo aspira a una forma di sorellanza sincera e sente grazie alla lettura che il suo senso critico si è risvegliato ed è tornata in lei quell’indole gagliarda dell’infanzia. Una delle scene più forti di Una donna accade a teatro quando la protagonista si trova a vedere il dramma di Henrik Ibsen Casa di bambola, tutto dedicato alla umanizzazione della donna una volta uscita dall’assoggettamento della vita familiare a domestica. La rivendicazione che le torna in petto è ancora quella della dignità umana, una «verità semplice e splendente» che lo spettacolo rendeva manifesta in modo chiaro, evidente e che non era più possibile ignorare.

La ferita si è aperta sempre di più, e a ogni nuovo richiamo del mondo della letteratura corrisponde una umiliazione in casa, è lo stesso marito a dirle che vuole brillare a danno del figlio, chiarendo che s’è divertita abbastanza con questo suo gioco della scrittura, altro non era che un passatempo, ma il suo luogo è la stanza, è la casa, è fare la moglie. Deve essere lui a decidere sul suo lavoro, la sua carriera e così fino all’ultimo, usa il figlio per il ricatto: se vuole andare via vada pure ma senza il bambino. Si spezza l’ultimo lembo di carne, pare impossibile ricucire, far guarire, e Rina lascia la casa, lascia Walter che per quaranta anni non vedrà più, e si tuffa nel mondo. Inizia il cambiamento feroce, la nuova fase, il nuovo nome e la nuova donna che di ogni grande amore e ogni grande delusione deve fare letteratura.

Si chiude così il romanzo: la protagonista spera il libro serva a spiegare al figlio la sua scelta, una scelta che ancora oggi avrebbe solo risposte di condanna e che Sibilla Aleramo non fece in realtà compiere a Rina Faccio ma a una donna senza nome, che potrebbe essere lei come chiunque altra si trovi stretta nella tenaglia di un ruolo e di una costrizione, mentre fuori il resto si muove, la storia va avanti e sembra non aspettarti.

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