Nel 2012 a Sandy Hook (Usa), col fucile d’assalto Remington A-15 da lui stesso comprato nello spaccio, il ventenne Adam Lanza uccise la madre, 20 bimbi e sei insegnanti della scuola elementare, oltre che se stesso. Dieci famiglie delle vittime reagirono al dolore organizzando un movimento volto a imporre limiti alla vendita e circolazione delle armi, ma l’istanza fu respinta nel 2015 dalla maggioranza repubblicana del Senato. Le famiglie si rivolsero allora al sistema giudiziario chiamando in causa separatamente il produttore dell’arma e un influencer complottista per cui la strage era una messinscena contro la vendita di armi.

Ne sono derivate due vittorie significative per le conseguenze che potrebbero derivarne in due ambiti: per l’industria, le conseguenze del ricorso a «pubblicità non dichiarata e suggestiva» per le armi o altri articoli capaci di disastri; per media e social, la trasparenza del nesso fra la libertà del dire (free speech) e la responsabilità per quanto, in caso di fandonie, ne consegue.

Armi in gioco

Il produttore dell’arma è stato condannato a risarcire le famiglie (75 milioni) quando si è scoperto che, attraverso il cosiddetto product placement, aveva ottenuto che proprio quel fucile fosse usato e messo in mostra dagli “sparatutto” di Call of Duty (Senso del dovere), il videogioco d’ammazzamenti che va per la maggiore tra i teenager.

Se lo ha fatto, ha deciso la Giuria, è stato per allevarsi come clienti gli sparatori potenziali affinché ricorrano all’occorrenza, proprio a quel fucile. Tanto più che, nonostante la potenza dell’arnese, la ditta non allarmava i dettaglianti per evitare che l’articolo fosse venduto a ragazzini stralunati di passaggio.

Ecco perché la sentenza funge da precedente ed espone la lobby delle armi a rischi di bilancio incalcolabili. Basti pensare all’indennizzo che potrebbe essere richiesto dalle famiglie dei 61 morti e 851 feriti della strage di Las Vegas del 2017, eseguita da un collezionista di mitragliatrici che, anziché essere trattato da ottimo cliente, avrebbe dovuto essere segnalato dai commercianti stessi alla polizia.

Mentire e pagarla

Il secondo condannato (la misura del risarcimento si sta definendo in questi giorni dopo molti infruttuose intimazioni di aprire il libro conti) è Alex Jones, padrone e conduttore di Info Wars (su cavo, streaming e social) dove spaccia bufale di estrema destra nella chiave complottista del «non vi dicono che…» e con l’occasione vende integratori alimentari, corredi per le armi, attrezzi di sopravvivenza. Il tutto a beneficio di un seguito di fan convinti che la vita sia una guerra, nonché del bilancio annuale della ditta che pare s’aggiri sulla cinquantina di milioni.

Per far girare l’ingranaggio delle rivelazioni complottiste, Jones fece a suo tempo una campagna sostenendo che a Sandy Hook era stata messa in scena un’operazione false flag – sotto falsa bandiera – con falsi bimbi morti e semplici attori nel ruolo di genitori addolorati. Con l’ovvio risultato di esporre padri e madri dei bambini uccisi all’ira dei suoi fan e a minacce di morte concrete e comprovate, come nel caso di Lucy Richards, già chiamata in tribunale e condannata nel 2017.

Condannare lo spacciatore di una bufala per i danni concreti che combina significa che il free speech è comunque sacro anche se proclama una menzogna, ma non rende invulnerabile il mentitore rispetto alla reazione giudiziaria di chi viene danneggiato. Col che emerge chiaro che la “litigation”, il ricorrere al giudizio che espone il mentitore al rischio di risarcimenti e di galera, è l’arma più efficace per disincentivare le fabbriche di bufale.  

Social e materia oscura

Il limite è che il ricorso al giudizio è praticabile solo nell’area “trasparente” dei social, dove il mentitore è un individuo dall’identità accertabile. Nulla è possibile con la materia oscura del cosmo social, quella dell’anonimo assoluto (da non confondere col diffuso ricorso allo pseudonimo) moltiplicato in efficacia dall’uso di spam bot.

Come il Cosmo è costituito, a quanto si dice, di materia oscura in misura 9 volte più abbondante di quella che ci appare, così i bilanci dei social accumulano ricavi essenzialmente da chi muove nascostamente grandi numeri. Non il singolo troll arroccato nel tinello, ma gli uffici del marketing politico e commerciale che, al di là degli atti manifesti con cui mostrano le merci, interagiscono assai più ampiamente col mondo del consumo per ricavarne analisi e indurre suggestioni.

Ragion per cui chissà quante volte riceviamo un post e ci atteggiamo a interlocutori mentre invece siamo semplici bersagli presi di mira per tastare la nostra propensione a una merce, ai criteri d’una setta, all’ostilità verso un capro espiatorio in tempo di elezioni.

L’anonimato, in sostanza, ha consegnato uno strumento di enorme efficacia ai “poteri forti” (altro che i “leoni da tastiera”) cioè a chi è in grado di sfruttarlo attraverso eserciti di bot camuffati da persone della strada e inaccessibili a qualsiasi azione giudiziaria. E giureremmo che di questa materia oscura s’alimenti il “patto per l’anonimo”, per cui dietro i tanti account ci sono molti più punti interrogativi che persone responsabili.

Data la dominanza della materia oscura dentro i social è scontato che a rimetterci sia la qualità della comunicazione che viene messa a circolare, tanto più che la logica del clickbait non distingue, e spesso premia i contenuti spazzatura. Ma per deflazionare questi contenuti non serve lo spazzino bensì, come dimostra la vicenda delle famiglie di Sandy Hook, un valido avvocato capace di stanare la fonte e disseccarla.

Mentre invece i social, guarda caso, a copertura del “patto per l’anonimo” – cioè di chi la spazzatura la produce – si spacciano per spazzini convinti che da fuori qualcuno il sacco glielo regga, spostando così l’attenzione dal comunicante al comunicato.

Sicché s’intrecciano fra social e pubblicisti le danze di parole attorno a un ossimoro come la censura mirati alla convivenza col free speech, oppure sui progressi dell’Intelligenza artificiale nel distinguere e cancellare l’odio senza che occorra disturbare l’odiatore. Da ultimo il New York Times – la giornalista Shira Ovide – suggerisce che Musk potrebbe essere una benedizione per Twitter se democratizzasse, per così dire, i criteri di censura e li affidasse alle meta-chiacchiere di un comitato di sapienti a pagamento.

Alla fine scopriremo che la colpa di Jones, il cacciaballe complottista, è stata solo di agire a volto esposto per vendere le carabattole nel suo emporio. Gli auguriamo di fallire, ma sapendo che ben altro e d’altra stazza nell’oscuro se la ride e la fa franca.

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