«I piatti raccontano storie», direbbe un qualsiasi content creator (gli influencer non si chiamano più influencer) su Instagram.

L’unica a cui viene in mente di scrivere il contrario è Sofia Fabiani, che nella vita fa effettivamente la content creator e nelle duecento pagine di Cucinava sempre (Mondadori) si incarica di dimostrare che le storie sono storie – storiacce, storielle, tragedie – e non hanno bisogno di metafore da carta dei cioccolatini, ma che la cucina può fare da strumento per renderle meno amare. 

Con lo sforzo di stile aggiuntivo di rendere il libro incollocabile in libreria: non è un’autobiografia, ma è il racconto in prima persona di come si sopravvive a piccoli problemi per l’umanità ma catastrofi per ogni millennial. 

Non è un saggio su una generazione ma lo si capisce soprattutto se si è nati tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. 

Soprattutto non è un libro di cucina ma ci sono delle ricette, per chi proprio ci tiene a instagrammare i suoi pranzi.

Poi basta taggare l’autrice per ricevere un elenco dei propri errori: sia nella vita che nell’esecuzione dell’impasto della pizza rossa romana. Quella senza la quale il mare di Ostia non è la stessa cosa, dopo che si è superato l’incubo di ogni amaxofobo: quaranta minuti di macchina sulla Cristoforo Colombo.

Cara catastrofe

A leggere la sinossi l’intenzione è quella di rispondere alla domanda, «in cucina è lecito parlare di tristezza?». A guardare i social dove l’autrice è diventata famosa viene da rispondere di no: la tristezza serve a chi fattura con l’empatia e le buone cause, a chi sforna torte e lasagne è molto più funzionale la gioia.

Nemmeno Fabiani, in realtà, risponde sì alla domanda: per lei in cucina è lecito parlare di tutto quello che le pare. Ma per tenere la cucina insieme ai sentimenti - soprattutto quelli più difficili da gestire - non bastano i singoli piatti, serve un menù.

Per questo il libro è fatto di scatole cinesi: tredici capitoli per altrettante emozioni, che si traducono in tredici menù di quattro piatti, e ognuno scelga di cucinare il suo o anche tutti quanti, a seconda del livello di immedesimazione.

Come si cucina l’angoscia? In nessun modo perchè toglie l’appetito, al massimo ci si mangia le mani. Per placarla almeno un po’, però, si può provare con il ciambellone. Che in “Cucinava sempre” non ha accanto la rassicurante dicitura “della nonna”, perchè la verità è che quel magico trucco in più della nonna era che quel ciambellone «ve lo faceva qualcuno».

E l’ipocondria? Innanzitutto evitando arachidi, sedano, soia, crostacei, molluschi e kiwi. O forse decidendo di affrontarli tutti insieme con le tagliatelle di riso all in, che ha nella lista degli ingredienti tutte le allergie che l’autrice ha creduto di avere nel corso degli anni, mentre si diagnosticava da sola malattie.

Il coraggio

Di tutti i sentimenti elencati, una volta finito il libro viene in mente l’unico che non viene citato mai: il coraggio.

Ognuno dei tredici racconti è un momento di vita, quasi sempre doloroso, e l’autrice lo scrive in prima persona senza risparmiarsi nulla e soprattutto senza voler trovare morali a tutti i costi.

Nel capitolo sulla rabbia c’è l’albero delle mamme, quello che la madre le aveva regalato da piccola convincendola che fosse un albicocco – il suo frutto preferito – ma in realtà era un pruno: «Ma era un albero di albicocche perchè me lo aveva detto mamma, e io mi dovevo fidare».

La madre non c’è più e l’albero è ancora lì, è diventato immenso e fa prugne piccole e aspre ostruendo l’ingresso di casa. 

Ma le albicocche si comprano anche al mercato e le ricette del menù sono tutte a base di albicocca, a partire dal dolce dedicato a chi non ha nessuna competenza in alcun ambito, meno che mai in cucina, e «la cosa più pericolosa di tutto il procedimento è tagliare le albicocche, e forse accendere i fornelli, dipende con chi sto parlando».   

In quello sull’ipocondria, invece, ci sono gli infermieri del pronto soccorso che la conoscono per nome e le chiedono «Vieni, che c’hai oggi?».

In quello sul disgusto, gli sguardi tra lei e zie e cugine a tutti i pranzi di Pasqua e Natale quando la nuova fidanzata del padre portava l’ennesimo piatto cattivo e aveva con le precedenti lo stesso comun denominatore di non saper cucinare.

Ma si ride

Ma si ride, anche. Fabiani non perde il tono del suo primo libro e quello che tiene sulla sua pagina instagram. Ritornano i modi di dire romani e la vita che è ‘na masticata de vetri, le sue idiosincrasie per le abitudini dei ristoranti (che il risotto lo fanno solo per due) e la parodia delle ragazzine sui social che si definiscono “pazze”, convinte di aggiungersi una accattivante sfumatura caratteriale per rimorchiare.

É un libro più adulto, però, in cui l’autrice non prende la strada più facile di parlare di quello che le riesce meglio – le relazioni sentimentali, che altro? – ma imbocca la via accidentata di parlare di sè, lasciando a chi legge di capire quanto l’io narrante coincida con quello dell’autrice.

Un esperimento è certamente riuscito: mettere disordine nel mondo di filtri dei profili Instagram soprattutto di cucina, e ammettere che la sera si può voler piangere un poco e non è sempre una gran tragedia, solo non se ne può fare a meno.  Ma questo non vuol dire che il minuto dopo non si possa ridere dei propri errori, di quelli degli altri e anche un po’ della sfortuna che ogni tanto tocca gestire, magari accendendo la planetaria per fare il tarte tin alle cipolle con ricotta. 

© Riproduzione riservata