In una società basata sulla parola come la nostra, a maggiore visibilità linguistica corrisponde maggiore visibilità sociale. Nominare le donne che lavorano corrisponde a far fare una piccola ginnastica al cervello, abituandolo alla normale alternanza dei generi in ogni contesto professionale, per ogni carica. Viaggio nelle parole che ci mettono dinanzi a una sfida contro la pigrizia. O peggio
Le cronache di questi giorni offrono lo spunto per parlare di una questione che forse necessita di alcune precisazioni. Mi riferisco alle notizie che ci arrivano dal Medio Oriente rispetto alla liberazione da parte di Hamas di una serie di ostaggi israeliani. Alcune testate hanno parlato di soldatesse, altre di soldate, altre ancora di soldati donna. Come ho già visto spesso accadere, in rete si sono formate vere e proprie fazioni che si sono confrontate anche aspramente, talvolta accusandosi a vicenda di ignoranza. E dunque, cosa preferire tra queste tre soluzioni?
Purtroppo, le persone vanno di rado a consultare cosa dice il dizionario: è molto più facile concepire un commento di ludibrio che non una disamina per quanto possibile obiettiva delle varie soluzioni linguistiche. E allora prendiamolo, il dizionario. Due tra i più usati, Zingarelli e Treccani, riportano la stessa indicazione: femminile soldatessa, raro soldata. Questo vuol dire che sia la soluzione in -essa, sia quella in -a, sono corrette. Rimane in secondo piano donna soldato, che è espressione lunga e tutto sommato inutile, dal momento che abbiamo le altre due opzioni.
La norma e l’uso
Soldato, infatti, è un termine di genere mobile, che appartiene alla categoria di parole che si declinano al femminile in base a una serie di regole: maestro-maestra, cioè -o/-a, infermiere-infermiera, cioè -e/-a, autore-autrice (cioè -tore/-trice), incisore-incisora (cioè -sore/-sora), pastore-pastora (cioè -tore/-tora). A logica, dunque, soldato dovrebbe fare soldata: soluzione che personalmente, da linguista, prediligo e consiglio, anche se a molte persone sembrerà strano, esotico, rispetto a soldatessa: ecco un caso in cui la sensibilità comune rispecchia quanto scritto nei dizionari, che, per l’appunto, riportano soldata come “raro”.
Ciò che porta molte persone che studiano la lingua a preferire il femminile a suffisso zero soldata a soldatessa è un duplice motivo. Il primo è di economia linguistica: che bisogno c’è di scomodare il lungo suffisso -essa quando esiste una versione molto più concisa?
Il secondo è di tipo storico: il suffisso -essa, nei decenni passati e non solo, è stato spesso usato per indicare le mogli di una carica o di un professionista (presidentessa: moglie del presidente; avvocatessa: moglie dell’avvocato; sindachessa: moglie del sindaco); inoltre, è stato impiegato per deformare in maniera sensibile il termine maschile, quasi a sottolineare l’anomalia della presenza femminile in un dato contesto (e la sua pretesa di venire appellata al femminile, ovviamente): risale agli inizi del Novecento l’uso di termini quali atletessa e deputatessa per prendere in giro atlete e deputate. Sceglierei soldata, quindi, anche se ancora classificato come “raro”: è proprio grazie alla maggior frequenza d’uso che tale dicitura potrà venire rimossa dai dizionari.
E allora la prof?
C’è chi obietterà che però diciamo dottoressa e professoressa. Vero: si tratta di due nomina agentis al femminile saldamente strutturati nell’uso quotidiano, tanto che sarebbe antieconomico pensare di cambiarli e sostituirli con dottora e professora (che, comunque, sono forme linguisticamente plausibili; non a caso, in spagnolo troviamo doctora e profesora); quindi, salviamo pure dottoressa e professoressa, ma preferiamo il femminile a suffisso zero per tutti quei casi in cui quel femminile non è ancora troppo comune nell’uso: sindaca meglio di sindachessa, avvocata meglio di avvocatessa.
Solitamente, assieme a dottoressa e professoressa viene citato anche studentessa come femminile in -essa estremamente comune nell’uso. L’ho tenuto a parte perché appartiene a una categoria di sostantivi diversa dai casi precedenti, ossia ai nomi ambigeneri: quelli che sono identici al maschile e al femminile, ma per i quali cambiano gli accordi dentro alla frase. In altre parole, basta usare articoli e aggettivi al femminile per rendere femminile la parola. In questo gruppo, troviamo sostantivi di origine greca: un atleta, un(a)’atleta, il pediatra, la pediatra, l(o)’astronauta, l(a)’astronauta; sostantivi in -e come il giudice, la giudice, ma anche il vigile, la vigile; derivati di participi presenti italiani o latini come – già menzionato – il presidente, la presidente, il docente, la docente, ma anche amante, paziente, insegnante, gerente.
Studente, a essere precise, rientra in questa categoria. Dunque, se non diciamo l’amantessa, non serve nemmeno dire la studentessa. È indubbiamente quest’ultima forma a essere ancora più comune nell’uso; ma personalmente, forse per deformazione professionale, mi capita sempre più spesso di parlare della studente senza grosse difficoltà.
L’architetta esiste
Per completare il quadro dei vari tipi di sostantivi in relazione ai loro femminili, mancano da nominare ulteriori due categorie: i termini di genere fisso, che hanno un maschile e un femminile formati da sostantivi differenti (madre-padre, fratello-sorella, genero-nuora) e i termini di genere promiscuo, un’ampia categoria di sostantivi che possiedono un solo genere, usato in riferimento a persone di ogni genere (guida, sentinella, vedetta, ma anche pedone, genio, personaggio).
Sostantivi di genere mobile, ambigeneri, di genere fisso, di genere promiscuo: di fronte a ogni parola che ci troviamo a voler usare al femminile, basta trovare la categoria di appartenenza per sapere come comportarsi. Così potremo scoprire l’esistenza di medica, di chirurga, di fabbra, di apicoltrice, di architetta (nonostante l’assonanza con tetta: invito a riflettere sul fatto che poche persone si imbarazzano a dire cazzuola o culatello, a parlare di seno in ambito matematico o di fallo in quello calcistico); allo stesso tempo, possiamo capire come mai parlare di pediatro o guido turistico sia, dal punto di vista linguistico, abbastanza insensato (che poi, se a qualche uomo fa piacere farsi chiamare così, ben venga: si può accomodare tra gli usi politici della lingua accanto a membra, personaggia o genia, che personalmente non uso, ma contro le quali non ho nulla).
Non è superfluo parlarne
Qualora fossi riuscita a farvi arrivare fin qua, magari convincendovi a usare soldata, aggiungo una piccola riflessione: soprattutto in questo periodo, si alzano forti le voci di chi afferma che i problemi sono ben altri, e che il lavoro sulla parola è elitista, da intellettualoni, insomma superfluo. Premesso che io stessa penso che il lavoro sulla lingua, sulle parole, non basti a cambiare le cose, contemporaneamente so anche che, in una società basata sulla parola come la nostra, a maggiore visibilità linguistica corrisponde maggiore visibilità sociale.
Nominare le donne che lavorano corrisponde a far fare una piccola ginnastica al cervello, abituandolo alla normale alternanza dei generi in ogni contesto professionale, per ogni carica. Anche tre parole che sembrano avere un significato differente se declinate al maschile o al femminile, indicando mansioni socialmente considerate meno prestigiose quando usate al femminile (maestra, segretaria, direttrice), possono cambiare connotazione con l’uso: se rendiamo nostra abitudine parlare di maestre d’orchestra, direttrici di giornale, segretarie di stato, ecco che piano piano queste parole non suoneranno di status diverso se impiegate al maschile o al femminile.
Scriveva Antonio Gramsci nei Quaderni dal carcere: «Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare‑nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale». L’accanimento del governo italiano, come di quello statunitense, contro il linguaggio di genere, è la miglior cartina di tornasole della sua rilevanza. Altrimenti, chi comanda non sprecherebbe tutte queste energie a ribadire la supposta irrilevanza del lavoro linguistico. Che serve, eccome se serve.
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