Ho raccontato un aneddoto sul comportamento di una quindicenne in aeroporto e sul suo rapporto con la madre. Non per la pretesa di sapere tutto, ma perché esistono spicchi di realtà che ci dicono qualcosa del mondo contemporaneo
Oggi in aeroporto una quindicenne era seduta vicino al gate, in attesa di imbarcarsi. Aveva un panino di McDonald’s, ma non lo mangiava, lo reggeva fra le dita e intanto continuava a chiamare la madre, la voleva accanto. Io ero a due sedili di distanza, fra me e la ragazza c’era il vuoto, e percepivo in lei una certa ansia, nulla di esagerato, l’ansia che di solito vediamo nei bambini: il desiderio di avere accanto i genitori.
Era evidente che stare lontano dalla madre in un aeroporto la facesse sentire a disagio. O forse non voleva che qualche estraneo le si avvicinasse, per esempio credo che se invece di mettermi due sedili più in là mi fossi piazzata proprio accanto a lei le avrei dato fastidio. La madre poteva rappresentare uno schermo.
E questa madre infine è arrivata, la ragazza si è messa finalmente a mangiare il panino, poco prima che io mi decidessi a rubarglielo e a fuggire (scherzo, ma è un pensiero che ho avuto, avevo fame, «se non mangia il panino lo mangio io», e allora vedi che forse ha ragione la ragazza a non fidarsi delle persone?). La madre non si è seduta, è rimasta davanti a lei, in piedi, le reggeva i tovaglioli. «Ti aiuto, così non ti sporchi la felpa nuova».
La ragazza era una quindicenne carina, ben tenuta, indistinguibile da molte sue coetanee. Capelli perfetti, trucco leggero ma preciso, parlata svelta (chiacchieravano). Potrei sbagliarmi, ma non credo ci fosse nulla di problematico in lei. Se non questo notevole bisogno della madre. Mi ha ricordato una scena di tanti anni fa, mi trovavo al primo giorno di una vacanza studio in Inghilterra, una ragazza urlò: «Voglio tornare a casa, voglio il mio bagno, il mio bagno!». Ma forse non c’entra.
Ho poi raccontato questo aneddoto su un social, così come l’ho raccontato qui, e prevedibilmente alcune persone hanno commentato dicendo che «talvolta ci sono patologie che non si vedono, magari la ragazza aveva qualcosa, anche se non sembra». Il comportamento della ragazza è stato cioè inquadrato come peculiare, ma la puntualizzazione è stata che magari ci sono questioni mentali sottostanti che non possiamo conoscere. «Racconti queste cose sui social senza neanche sapere cosa c’è dietro». E non si capisce come mai raccontare un aneddoto che coinvolge soggetti anonimi, non descritti fisicamente, senza foto, senza indicazioni di luoghi possa rappresentare un problema: abbiamo bisogno di aneddoti, fra l’altro, come chiunque scrive sa.
Trovo interessante il fatto che oggi di rado possiamo parlare dei comportamenti senza incorrere nel problema del «magari c’è una patologia dietro, quindi meglio stare zitti». Il fatto che esista la patologia potenziale diventa un impedimento ad analizzare il resto. Sì, è vero, magari c’è una patologia che sottende il comportamento di una persona, ma è altrettanto vero che magari non c’è. Magari un comportamento si verifica in una persona per ragioni legate alla patologia, magari si verifica invece per via della cultura in cui ci troviamo. Non è altrettanto importante pensarci su?
Comunità
Per esempio oggi spesso si osserva una dipendenza fra genitori e figli, anche in età non più infantile. Figli adolescenti. Ma anche fra figli adulti e genitori anziani. Più in generale, si osserva una dipendenza fra alcuni soggetti, in un contesto in cui è scomparsa la comunità. Non è utile badarci? Fra l’altro, non è detto che i soggetti sbaglino a sviluppare queste dipendenze. Forse sono meccanismi di sopravvivenza che germogliano quasi inevitabilmente, là dove la sensazione di essere soli è più acuta rispetto al passato.
Nessuno critica la quindicenne. Nessuno lo fa sia nel caso in cui abbia una patologia invisibile, sia nel caso in cui si comporti così perché il mondo in cui si trova la porta ad avere un certo tipo di ansia. Credo sia importante chiedersi se ci piace la forma assunta oggi dal mondo, e se pensiamo che questa forma sia sostenibile. La questione della comunità e della solitudine è spesso affrontata in modo troppo astratto. Non possiamo uccidere gli aneddoti per un’ossessione di correttezza.
La scena della ragazza rileva perché ha una sua semplicità. La fame trattenuta, il bisogno di protezione, il gesto della madre che tiene i tovaglioli. Gli aneddoti sono la materia prima dell’immaginazione e dell’intelligenza collettiva. Stabilire se ci piace davvero il mondo che stiamo costruendo è una di quelle domande che un eccesso di cautela («non puoi parlare senza sapere tutto!») può sterilizzare.
© Riproduzione riservata