Gli ultimi dodici mesi hanno prodotto diverse discontinuità nella vita e nella economia individuale e collettiva. Se guardiamo al composito mondo delle organizzazioni culturali, un tema noto agli operatori, ma trascurato nel dibattito collettivo fino a pochi mesi fa, riguarda la sostenibilità del lavoro culturale.

Parte delle ragioni di questa scarsa attenzione generalizzata è data dall’estrema varietà dei mondi della cultura, dal punto di vista istituzionale, dimensionale e di tipo di attività perseguita. Sono organizzazioni culturali, le istituzioni di conservazione e tutela, gli enti pubblici, privati, no profit che valorizzano il patrimonio materiale e immateriale, le imprese o gli enti no profit che producono contenuti, i social media, chi stimola la curiosità e l’attenzione collettiva, costruisce immaginari, raggiungendo pubblici attraverso filiere fisiche o digitali o in eventi in presenza.  

Data l’estrema varietà dei “datori di lavoro culturale”, non stupisce che un altro importantissimo aspetto che spiega la difficoltà a parlare del tema sia l’estrema varietà dei profili professionali dei lavoratori della cultura, in ambito artistico, tecnico e gestionale.

Il baratro economico

L’improvvisa discontinuità prodotta dalla pandemia è nota: filiere dello spettacolo dal vivo bloccate, rallentamento e ricomposizione delle filiere fisiche, esplosione delle filiere digitali, dagli e-tailer alle piattaforme in streaming.

I dati pubblicati da Siae sul confronto fra 2019 e 2020 sullo spettacolo dal vivo danno conto del baratro economico “in negativo”: -69 per cento nel numero di eventi realizzati (1,3 milioni contro 4,4 milioni), -72 per cento nel numero di spettatori, -78 per cento di spesa al botteghino (sono andati bruciati 2,1 miliardi di euro in mancati incassi), -82 per cento di spesa del pubblico. Cinema, teatro, concerti, mostre, eventi sportivi live, discoteche e parchi a tema hanno presentato andamenti variamente problematici, ma è evidente che il cambiamento è stato davvero significativo.  

D’altra parte, i dati pubblicati da Aie danno evidenza della tenuta di alcune filiere: la filiera del libro ha complessivamente assorbito gli effetti negativi del lockdown, pur con differenze fra i canali e fra prodotti fisici e digitali. E, infine, i tassi di crescita del numero degli abbonati a Netflix e Disney+ sono un indicatore non solo della crescita di importanza dei canali digitali rispetto a quelli fisici, ma anche della competizione in atto fra i canali digitali. Secondo il Financial Times, il 2020 ha determinato il sorpasso degli abbonati a servizi di streaming tv in Europa (140 milioni), rispetto agli abbonati a servizi di pay tv (120 milioni).  

Da un punto di vista economico, il saldo fra “i sommersi e i salvati” è comunque negativo; e la pandemia ha improvvisamente fatto emergere il tema dell’insostenibilità di larghe fette di lavoro. Gli aspetti problematici non sono solo legati alla quantità di lavoro “perso” a causa della pandemia in ambito culturale, ma alla sua fragilità, alla sua qualità e alle prospettive di carriera e di crescita.

Riconoscere i lavoratori

Cominciamo dagli artisti/autori: Siae ha attivato nel 2020 un sistema di fondi di solidarietà per i suoi associati molto articolato, che comprende 2.500 pacchi (500.000 mila euro) alimentari per autori in particolare emergenza, 4 milioni di euro per gli agenti mandatari, 60 milioni di euro per autori ed editori in difficoltà e 50 milioni sotto forma di prestiti a tasso zero.

Sono importi importanti, ma che vanno messi in relazione con il numero di associati, che sono oltre 90.000 e che peraltro rappresentano una porzione limitata della popolazione dei “creatori di opere d’ingegno”. Fra questi, ci sono gli artisti/autori molto noti, quelli che non intendono “vivere d’arte” e che hanno una fonte di reddito prevalente fuori dai settori della cultura e molti che si considerano autori o artisti, ma che faticano a percepire un reddito da proprietà intellettuale.

Indubbiamente, l’imperfezione allocativa dei mercati dello star system da una parte e la labilità del confine fra pratica e partecipazione culturale dall’altro rendono difficile definire, quantificare, spesso riconoscere gli artisti in quanto lavoratori (o dovremmo chiamarli imprenditori?). In Italia, il 56,2 per cento degli italiani sopra i sei anni coltiva una pratica amatoriale di produzione creativa, in primis la fotografia, che ha il suo picco fra i 15 e i 17 anni (81,5 per cento della popolazione). Quasi un adulto su dieci si dedica alla scrittura di poesie, racconti, diari, blog. Nell’ipotesi che il 30 per cento degli associati Siae si sostenga economicamente con i proventi dell’attività autoriale e che il 10 per cento sia composto da amatori, rimangono circa 55.000 persone da tenere in osservazione.

Un altro problema è rappresentato dal numero di professioni e di organizzazioni “che ruotano” attorno all’attività artistica, in larga parte di natura tecnica: elettricisti, montatori, truccatori, grafici, illustratori, tecnici del suono, webmaker, guide turistiche, catalogatori… 

In Italia, gli ultimi dati disponibili sugli occupati in ambito culturale rilevano che il 64 per cento è costituito da lavoratori in proprio. La crisi, le grida di dolore delle specifiche categorie professionali e le politiche di ristoro hanno portato alla luce la varietà di specializzazioni e la fragilità di questa fetta dei mercati del lavoro. Classificare, mettere ordine e aumentare la trasparenza riguardo a questo insieme di lavori è difficile, ma urgente e necessario, anche per stimolare la crescita professionale e l’imprenditorialità culturale; gli elenchi delle persone e delle organizzazioni che hanno ricevuto ristoro mi sembra un possibile punto di partenza.

Altro tema delicato è il lavoro volontario: il numero delle organizzazioni culturali in cui la forza lavoro è composta in massima parte da volontari è altissimo. Al censimento del 2011 quasi 823.000 volontari lavoravano in attività connesse a musei archivi e biblioteche; a loro vanno aggiunti circa un milione di volontari durante eventi ricreativi e sportivi.

È indubbio che le organizzazioni del terzo settore e quelle culturali svolgono un importantissimo ruolo nella costruzione di capitale sociale a livello territoriale; tuttavia, un conto è essere volontari in quanto ricchi di famiglia e generosi, un conto è prestare servizi di pubblica utilità come parte del proprio percorso di crescita umana e civile, un conto è trasformare il praticantato in volontariato, un conto è svolgere un’attività non economicamente sostenibile in una organizzazione non economicamente sostenibile, soprattutto se chi la svolge è in larga parte giovane e istruito.  

Meccanismi distorsivi 

E infine c’è da considerare il lavoro a tempo indeterminato, in ambito pubblico nelle istituzioni culturali (statali e locali) o privato, nei settori culturali e nei media fisici e digitali. Due mi sembrano i macro-temi da affrontare in questo caso: come realizzare percorsi di crescita professionale che siano motivanti da un lato e stimolanti dall’altro, in termini di arricchimento e contaminazione di competenze, e come conciliare impegno, risultati e potere.

Le organizzazioni culturali sono specchio della società; il lavoro culturale è in larga parte femminile, ma il potere nelle organizzazioni culturali è in massima parte in mani maschili. Se aggiungiamo a questa considerazione il fatto che i meccanismi distorsivi dei mercati del lavoro portano inevitabilmente ad autoselezionare per lavori culturali persone in grado di assorbire attraverso il reddito della propria famiglia i rischi connessi a una non adeguata remunerazione, è inevitabile che la rappresentazione della società offerta dai mondi della cultura rispecchi il punto di vista di una parte minoritaria della società. E questo è un problema di tutti, perché dobbiamo alle organizzazioni culturali e a chi ci lavora la costruzione dei nostri immaginari. E del nostro futuro.

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