Felicia Kingsley ricorda Sophie Kinsella: «Le sue protagoniste sono state un punto di rottura nel genere»

«È stata un punto di rottura». Così Felicia Kingsley, pseudonimo di Serena Artioli e firma di alcuni dei romanzi rosa di maggior successo in Italia, racconta il significato di Madeleine Wickham, autrice con il nome di Sophie Kinsella della famosissima serie I love shopping, che è morta il 10 dicembre 2025 all’età di 55 anni per un tumore al cervello. Cosa ha rappresentato Sophie Kinsella per le lettrici e le scrittrici della sua generazione? Sicuramente per molte millennial è stata l’autrice che è andata a inserirsi in quel passaggio generazionale tra la letteratura per ragazzi e quella con protagonisti e protagoniste persone adulte che fanno una vita da adulti e hanno problemi da adulti. Per me è stato così, perché io ho cominciato a leggerla intorno ai 16 anni, con I love shopping: in quei libri ci ho ritrovato un po’ le stesse atmosfere che mi comunicava la serie Friends. Personaggi un po’ goffi, ognuno con i suoi difetti, ma estremamente autoironici e in tutti i romanzi c’era un forte clima di calore. E in che modo ha cambiato il suo settore? Dal punto di vista letterario si è inserita in quella che al tempo era stata ribattezzata in maniera non troppo generosa come chick-lit, letteralmente la letteratura per pollastrelle. Lei è stata un po’ un punto di rottura rispetto alle protagoniste dei romance precedenti: negli anni Novanta erano tutte protagoniste molto perfette, che a tratti sembravano un po’ la Stepford wife e che soprattutto avevano un unico fine, il matrimonio. Negli anni 2000 c’è sempre più spazio per le donne che lavorano, e hanno ambizioni professionali. E lei ci porta Becky Bloomwood che fa, diciamo, della sua passione il suo lavoro. E la sua passione è lo shopping. Kinsella introduce una protagonista che è una donna imperfetta. Non un simulacro senza difetti, che si prende estremamente sul serio, ma una donna che si prende anche sul ridere. Una donna che ha delle pretese anche in termini di ambizione, che vuole crescere, vuole fare qualcosa della sua vita. Cerca l’amore, ma non solo l’amore, cosa che si differenzia dai romanzi precedenti. Perciò lei ha segnato, insieme alla Bridget Jones di Helen Fielding e alla Andy Sachs de Il diavolo veste Prada, un cambiamento che poi è continuato. Addio a Sophie Kinsella e alle sua imperfetta comicità Cosa pensa dell’ultimo libro che ha scritto, la novella Cosa si prova? Sicuramente è la sua opera più personale, la versione romanzata, ma neanche tanto, del suo vissuto da paziente oncologica. È un libro che ha scritto per i vivi, perché è un libro che pur essendo estremamente realista, si conclude con una speranza. Chiunque sia coinvolto in questo tipo di cure, faccio questo tipo di terapia, con diagnosi di tumore, cerca la speranza. Lei è stata molto attiva da quando le è stato diagnosticato il cancro, si è fatta coinvolgere in tutte le iniziative di sostegno e beneficenza legate alle cure per il tumore al cervello. In quel libro c’è la consapevolezza del fatto che il motivo per cui poi torniamo sempre alle commedie romantiche è il lieto fine, no? Sì, ma direi che vale per tutti i romanzi: il lieto fine serve a dare senso a quello che si è letto. È un finale lieto anche quando si cattura l’assassino in un giallo. Io come autrice comando sulla mia storia, la faccio andare a modo mio, purtroppo nella vita reale non abbiamo questo potere tanto nelle storie d’amore quanto nelle storie di cronaca e purtroppo anche nei casi di salute. I love shopping è ovviamente il suo libro più famoso. Ce ne sono altri suoi che ha amato? A me è piaciuto tantissimo Sai tenere un segreto?, seguito subito dopo da La regina della casa. Poi un suo libro che mi ha commosso, cosa che di solito non mi è mai successa con i suoi libri, non perché non fossero toccanti, ma perché tendevano più a farmi ridere e sorridere, è stato La ragazza fantasma. Anche quello è particolare nella sua produzione, perché è l’unico in cui inserisce l’elemento paranormale. Kinsella scriveva libri che facevano ridere. Quanto è difficile per uno scrittore far ridere? Per tutti è difficile far ridere. Mi ricorderò sempre un’intervista di Leonardo Pieraccioni in cui racconta di quando all’inizio della sua carriera incontra al ristorante Roberto Benigni e allora va a salutarlo, fargli i complimenti e gli dice: «Tu mi fai spaccare dal ridere, continua a fare film in cui fai ridere». E Benigni, severissimo come un giudice, lo guarda e fa: «Fosse facile». Perché poi sappiamo che dietro la risata si nasconde un universo di emozioni ben diverso. La risata ti porta allegria ma ti porta anche a riflettere. Sicuramente a lei piaceva prendere la vita là dove si poteva sorridere. E un’altra autrice che diceva di amare di poter ridere delle cose era Jane Austen. Bridget Jones, meritavi di meglio: Jane Austen non ti avrebbe fatta così