L’allegria della sopravvivenza: la Palestina vive nella danza

«Danza e musica, in Palestina esistono», scrivevamo nel 2016, dopo aver seguito per anni le traversie di Badke uno spettacolo nato dalla mente smaliziata e lungimirante di Alain Platel (uno degli artisti polivalenti più originali e famosi del nostro tempo), che sembrava non potesse debuttare. Nessuno avrebbe mai creduto che dieci palestinesi, guidati dai coreografi Koen Augustijnen e Rosalba Torres Guerrero più Hildegard De Vuyst, drammaturga al Teatro Reale Fiammingo, tutti emissari della compagnia Le Ballet C.d la B. del tentacolare Platel, sarebbero riusciti anche solo a sopportare un iter burocratico iniziato nel 2001 e conclusosi nel 2013, tra permessi israeliani concessi e ritirati, passaggi anche illegali da città a presidi e quel defatigante aller/retour dall’antica Giudea e Samaria al Belgio. Invece, al termine di prove svoltesi tra Beit Jala (vicino a Betlemme), Ramallah e Bruxelles, quando Badke debuttò la sera d’un attesissimo 29 agosto 2013 al Theater Spektakel di Zurigo, incassò l’entusiasmo di pubblico e critica per la brillantezza e originale frenesia e il potente spirito combattivo. Lo spettacolo partì subito in una prima tournée internazionale durata sino al 2017 senza mai fare una grinza, anzi accumulando successi e plauso anche al Teatro Comunale di Ferrara, unica tappa italiana che lo mise a confronto con il levigato e in parte yiddish Obscene Gesture / We Love Arabs, di e con Hillel Kogan. Ma Badke ignorava la controparte israeliana. Era ed è ancora (rimesso in scena in forma di Badke remix) uno spaccato di cultura solo palestinese e tuttavia cedeva la sua tipologia folk spostandosi verso la danza contemporanea a partire dal titolo, anagramma di Dabke una danza popolare diffusa in molti paesi del Medio Oriente, sintesi del verbo arabo dabaka ossia «battere i piedi per terra». Una danza antica Ballo ben noto ai dieci interpreti provenienti per lo più da Galilea, Gerusalemme, e Ramallah, Dabke, pare di origine fenicia, è colla aggregante durante i matrimoni e le celebrazioni festive, ma come certo folklore russo ha un impianto “accademico”, cioè bisognoso di un training speciale, impartito in appositi centri sportivi e formativi, in specie quando in tempi più sereni e non certo odierni, veniva richiesto anche all’estero come emblema nazionale e identitario di un popolo da tempo in guerra. Nel lungo percorso creativo le prime sillabe dell’acquiescente Dabke divennero Badke: la radice “bad” aveva un suo riconoscibile significato ribelle più che antitradizionalista e divenne amalgama di molte danze e azioni fisiche apprese non solo all’A.M. Qattan Foundation di Ramallah (vasto centro culturale nato nel 1993 e si presume ancora in piedi nonostante la chiusura di biblioteca e varie attività culturali) ma anche all’estero grazie a una serie di scholarship, in questo caso hip hop, arti circensi, brasiliana capoeira. Così la pièce richiese un minuzioso metodo di lavoro calibrato e collaborativo; divenne un ponte non solo geografico ma artistico tra diversi stili, non certo estraneo al pasticheur Platel, abituato a lavorare da pedagogo con dilettanti di strada, desiderosi di diventare divi e perciò disposti a mescolarsi a cantanti e musicisti classici fuori della fossa d’orchestra e a esibirsi nelle scenografie di periferia da lui create. Qui però l’obiettivo non era provare il talento di corpi generici eventualmente diventati capacissimi ballerini, ma semmai trasfigurare una danza incancrenita entro la tradizione islamica in qualcosa di vivo e pungente. Huda Skaik, una vita sotto assedio. «Mi sento vecchia di mille anni» Lo spettacolo L’incipit di Badke avveniva nel buio più totale, tra urla incomprensibili, battiti di mani e rumore di lontani passi in marcia. Forse ci indicava perché e come quello strano garbuglio si fosse infilato in scena, considerando il più che fragile sviluppo della danza in Palestina che di lì a poco sarebbe svettato in un inedito restyling. Sulla scena nuda, “infiocchetta” sul fondo da un tristissimo quanto necessario distributore di acqua, con alcuni stracci disseminati qua e là, l’entrata dei danzatori fu subito di schiena, in costumi formali per gli uomini e variopinti per le donne. I passi erano saltati e battuti; le catene, con le braccia intrecciate sulle spalle, non formavano mai girotondi. E c’era sempre qualcuno che usciva dal gruppo per esibirsi in assoli allegri, sprizzanti gioia di vivere, in pezzi hip hop, in combattimenti da capoeira; le ballerine erano sollevate in lift aerei come in un rock’n roll d’altri tempi. C’è chi si toglieva la giacca e ancheggiava gettandola in aria, chi sapeva esibirsi in piroette, alcuni si concedevano acrobazie. Se questi erano i ritmi e gli intrattenimenti dei territori palestinesi e sulla striscia di Gaza, beh – ci si poteva interrogare – non apparivano così desolati…Quand’ecco che qualche fugace turbamento s’introduceva nel fermarsi ad occhi chiusi di un danzatore, mentre si facevano più minacciose le sirene di polizia di un mijwiz (registrato) da Naser Al-Fares, leader di un’orchestra da Dabke, abituato a suonare questo clarino arabo a doppia canna, dal suono particolare e con una tecnica di esecuzione chiamata “respirazione circolare”. Trenta minuti di quella musica per fiati senza interruzioni parevano, sulle prime, irresistibili, ma a lungo andare divenivano insopportabili, come le parole urlate – dicevano chissà che – mentre quel luogo spoglio e tetro in cui all’improvviso mancava ogni sia pur sparuto segno d’illuminazione, induceva piano piano ad un palpabile spaesamento collettivo a cui i danzatori comunque si ribellavano. A luce di nuovo accesa, il più poderoso tra i ballerini indossava una gonna per una danza del ventre che invertiva i ruoli dell’osservatore abituale in osservatrice. Potevamo accostare questo inquietante momento della pièce a Sous leurs pieds le paradis (2012) del solitario tunisino Radhouane El Meddeb. Ma quell’omone svelava la sua vulnerabile femminilità, rendendo omaggio al “Paradiso ai piedi delle madri”, secondo la tradizione profetica islamica, senza aggiungere né ironia, né beffa al suo cicaleccio gestuale un po’appesantito. Il palestinese, invece, ribaltava subito il suo impudico travestimento in un maschilismo che s’insinuava in Badke incatenando le ballerine, senza paura di mostrare i vizi del Dabke e della cultura che lo esprime: ancora e malauguratamente machista. Per smorzarne l’acro sentore, ecco scialli e copricapo rossi, da portare alle danzatrici in trionfo, rendendo anche omaggio ai loro femministi pugni chiusi. «Il male e i ricordi», la poesia dei gazawi finita sotto assedio Allegria e sopravvivenza Il finale arrestava la crescita di ogni tipo di danze vertiginose. Tutti in proscenio, “sparati” da una finta pistola, cadevano a terra. Rialzati, portavano le braccia in alto, intrecciavano le dita come in una preghiera; e indietreggiando sembravano chiamare il pubblico verso di loro con gesti riccioluti e voluttuosi. Venite questo è il Badke, una “cattiva” versione del Dabke, un posto dove l’allegria è forse solo espediente di sopravvivenza, ed è screziata di dolore, ma lotta e non si arrende a nessunissima depressione. Infine, a Gand, attesi i visti israeliani, questa volta per quindici palestinesi, Alain Platel ha fatto sì che La Geste, una sua compagnia satellite, rianimasse in giugno Badke e ha scritto. «Questa stagione, La Geste ha programmato un remake di Badke, interamente curato da un gruppo di artisti palestinesi e diretto da Ata Khatab e Amir Sabra. A Khatab è stato imposto un divieto di viaggio dal governo israeliano e ha potuto quindi co-dirigere il progetto solo tramite Zoom. È così che è nato Badke (remix)». Platel ha poi aggiunto: «È quasi impossibile catturare un conflitto di proporzioni enormi come quello in Israele e nei Territori Occupati in una performance. Troppo facilmente si scivola in dichiarazioni da pamphlet, immagini polarizzanti o accuse reciproche. Badke (remix) di La Geste fa qualcosa di diverso. È una performance di danza che non urla, non fa dichiarazioni politiche e non sventola bandiere (o le brucia...), ma ti lascia con le mani sudate e un pensiero irresistibile: devo e posso fare qualcosa!». Il giornalista Omar El Akkad: «Con Trump gli americani hanno scelto la crudeltà, sogno un futuro senza Hamas»