Il 27 marzo del 1986, ho capito che non sarei sopravvissuta a Piacenza.

Era il Giovedì Santo, mia madre stava riposando prima del giro dei Sepolcri, avremmo cominciato dalla chiesa di Sant’Antonino: l’altare nella cappella laterale apparecchiato con i dodici piatti degli Apostoli, il vino fatto bollire con l’incenso e i semi di grano germogliati al buio, a simboleggiare il passaggio dalle tenebre della morte di Gesù alla sua Resurrezione che, come tutti gli anni, sarebbe arrivata.

Per il resto, ovatta e desolazione intorno a noi: le campane mute, il tabernacolo vuoto, il crocifisso coperto perché la Passione di Gesù era iniziata. E la mia anche, ma da più tempo. Solo, non facevo tutte queste cerimonie. Stavo zitta, aspettavo.

Quell’anno però, a rubare la scena a Gesù è arrivata Jeanette.

Minuti sospesi

Prima ci è saltata in bocca una frenata bruschissima, unghie di gatto sulla lavagna più grande che si possa immaginare, poi un tonfo sordo e lieve, un suono spaventoso e bello insieme che si è infilato nella mia amigdala e non è mai uscito.

Quel tonfo era la dodicenne più bella di Piacenza, abitava davanti a casa nostra, in una piccola villetta rossa immersa nel parco della Galleana: 15 ettari di terreno utilizzati come deposito di munizioni e laboratorio di caricamento proiettili fino alla seconda guerra mondiale, riqualificati poi negli anni Ottanta in distese di campi e prati addomesticati per famiglie morsicate dalla noia e dalle zanzare.  

Dentro potevi trovare scoiattoli, lepri, fagiani e i ragazzi più grandi che si facevano di eroina nelle tre casematte che, in qualche modo, avevano resistito al tempo. Io, Jeanette e gli altri bambini del quartiere ci davamo appuntamento lì, indifferenti alle siringhe infilate nelle braccia e nelle caviglie di questi zombie addormentati, ma ogni tanto era lei ad attraversare la strada per venirmi a citofonare. È stato durante uno di quegli attraversamenti che una macchina ha steso a terra la majorette più promettente del Corpo Bandistico della nostra città.

Io, 12 anni come lei, mi allenavo di nascosto rigirandomi la penna Bic tra le dita e devo dire che me la cavavo, ma Jeanette era la regina dei bastoncini di legno: li ruotava per ore e ore senza badare alla gravità marciando sicura nel giardino di casa, gli stivaletti di vernice bianca ai piedi, un sorriso a spalancare la sua bocca nel futuro.

«Guardala, è uno spettacolo», diceva sempre mio padre che ora la osservava dal nostro balcone insieme a me, a mia madre e a mia sorella. Il corpo disteso e gli occhi chiusi, era elegante anche così mentre dalla sua testa si allargava velocemente una macchia densa che sembrava succo di lamponi. All’improvviso, come evocata da un mago, era apparsa sulla scena la madre: la vestaglia allacciata alla bell’e meglio e le gambe avvolte in calze contenitive color carne, impegnate a combattere le vene varicose. Ma ora stava ingaggiando una battaglia molto più cruenta di quella con i suoi capillari, e in quei minuti sospesi – prima dell’arrivo dell’ambulanza – sistemava come poteva i capelli di Jeanette imbrattati dai frammenti di cervello, gridando a tutti e a nessuno: «Datele dell’acqua, qualcuno porti un bicchiere d’acqua». Io guardavo la pozza diventare lago, quella vestaglia da cui spuntava un seno ancora bello e speravo nel miracolo: «Adesso la allatta perché le madri sanno salvarti la vita, la Madonna del latte resusciterà la figli».

Jeanette doveva diventare la nuova Isabella Ferrari, studiava per quello. Tutte lo sognavamo, ma solo poche, pochissime potevano davvero puntarci.

Essere Isabella Ferrari

(AP Photo/Domenico Stinellis)

Nel 1983 Sapore di mare è il film più visto a Piacenza perché dentro c’è lei, Isabella Ferrari, già vincitrice a 15 anni del titolo di Miss Teenager nei giochi serali alla Farnesiana. Come premio ottiene un contratto discografico e l’incisione di un 45 giri: nel video di Canto una canzone indossa una t-shirt con la faccia di Topolino, dei jeans attillati e scaldamuscoli rossi mentre danza sulle punte, perché anche se arriva da una famiglia povera, lei è aggraziata come una ballerina del carillon.

La più svantaggiata di tutte, partita come racconterà «da una casa nel nulla a Gropparello senza riscaldamento, con troppa neve non si andava a scuola», è diventata il miraggio. Germogliata nella periferia della periferia della vita, duemila anime e un castello a lei inaccessibile a 28 chilometri da Piacenza, Isabella – occhi azzurri e capelli biondi – non si lascia avvilire da Gropparello, perché capisce subito di essere un proiettile scagliato nel futuro. Le basta sfogliare qualche rivista, sovrapporre il suo viso a quello di Grace Kelly (gli stessi colori, la stessa natura divina, solo il lignaggio è diverso, perché a Piacenza si profuma di terra e campi concimati), e seguire il sogno della madre che la accompagna a tutti i provini mentre il padre commercia bestiame.

Quando Gianni Boncompagni la prende per un programma in tv, lei dice addio ai pomeriggi tra i covoni di fieno e i panni lavati al fiume. A 19 anni è Selvaggia in Sapore di mare, poi avrà successo in Francia perché parlare il francese per un piacentino è facile: la lingua d’oltralpe si è incuneata nei rigurgiti del nostro dialetto, appuntito nei secoli dalla durezza celtica (il popolo dei druidi era arrivato alla conquista del territorio dopo gli etruschi e prima dei romani), e lo ha ammorbidito durante il dominio borbonico, sciogliendo le tensioni dei suoni con delle nasali arrendevoli.

Così la “erre” ci viene naturale, chiamiamo le patate “pommes de terre” anche se in Francia non ci andiamo, quella la lasciamo a Isabella, noi restiamo con Selvaggia – il bikini rosso e bianco, lo slip con i volant – per sempre sulla spiaggia a giocare a rubabandiera con Massimo Ciavarro: chi ha gli occhi più azzurri? I belli stanno con i belli, è il loro destino.

Anche dalla Francia, Isabella Ferrari non dimenticherà le sue origini, rivendicando che «i contadini hanno una loro eleganza nello stare al mondo», mentre i genitori di Jeanette, dopo la sua morte, abbandoneranno la casa nel parco. Nessuno ha più saputo nulla di loro.

Gli Invincibili 

Io ho girato lo sguardo e cambiato balcone: faccio sempre così quando scoppia attorno a me qualcosa che non voglio vedere. Ho afferrato il binocolo con cui mio padre seguiva la migrazione degli uccelli e l’ho puntato sull’Istituto maschile privato G. Marconi frequentato dai rampolli delle famiglie piacentine che non avevano voglia di studiare, ma con i soldi risolvi tutto.

Nelle intenzioni: l’arroganza di essere Cambridge, ma nella pratica una villa bianca inondata dal glicine in primavera, e il precettore – un signore gentile con un barboncino più bianco della villa, chiamato Neve – che voleva molto bene a questi ragazzi da me spiati per anni mentre ballavano sul tetto, di notte, ascoltando la musica che usciva dalle loro radio. Erano lucciole illuminate dal fuoco delle loro sigarette, erano soprattutto i primi uomini che ho visto in mutande, spesso impegnati a farsi delle seghe, una pratica che svolgevano senza vergogna insieme, ridendo. Ma di giorno: pantaloni grigi, giacca blu come la cravatta, camicia azzurra liscia e spianata per gli “Invincibili”, si chiamavano così fra loro.

Dal mio balcone scattavo sull’attenti quando sentivo la campanella che annunciava l’ora della colazione o del pranzo: sapevo che era una questione di minuti e, di lì a poco, gli Invincibili avrebbero invaso rapaci le strade e i bar attorno a casa mia: erano molto magri perché – scoprirò quando mi fidanzerò con uno di loro – mangiavano pochissimo per avere più tempo, prima finivano il rito del nutrimento comune, prima fuggivano come matti per le vie di Piacenza. Mica potevano privare il mondo della loro meraviglia.

Il fine settimana tra quei corridoi rimaneva solo il precettore a passeggiare con Neve, le lucciole andavano a illuminare le loro ville di Cortina o Montecarlo, ma il lunedì sera tornavano sul tetto, mettevano Gipsy Woman di Crystal Waters, ballavano.

Quando decidevano di cantare, lasciavano perdere l’inglese di cui in realtà non capivano nulla (sapevano solo ripetere “La da dee, la dee da” del ritornello, e io pensavo siete dei magnifici cretini, è una canzone tristissima questa, parla di una barbona) e giocavano in casa, con Fiordaliso.

A quel punto smettevo di giudicarli e cantavo con loro, piano, dal mio balcone: «Vorrei due ali d’aliante/Per volare sempre più distante/E una barca sul fiume/Per pulirmi in pace le mie piume».

Gli occhi di Fiordaliso

Figlia di Auro, Fiordaliso, cresciuta a Villa Grilli – le case popolari di Piacenza, un quartiere stranamente chiassoso che confina qui abitanti con pochi soldi ma ricchi di gentilezza, concetto di cui la città è avara – nel 1984 questa ragazza di 28 anni ha già vissuto molte vite quando si presenta per la terza volta consecutiva al Festival di Sanremo.

Irradiati dalla luce dei loro schermi, milioni di italiani e migliaia di piacentini si commuovono, piangono e applaudono. Fra questi anche Sebastiano, figlio tredicenne di Fiordaliso, osserva silenzioso la madre diventata lampadario luminoso – mono orecchino spaziale e una maglia di gocce di cristallo – che urla Non voglio mica la luna. Fiordaliso non fa come gli altri cantanti in gara: a metà scalinata si ferma, si piazza seduta sui gradini e stringe i pugni raccontando che «con gli occhi pieni di vento non ci si accorge dov’è il sentimento, e tra i nostri rami intrecciati troppi inverni sono già passati».

Come nome d’arte ha scelto il cognome di un padre che l’ha mandata via di casa, in un istituto per ragazze madri, quando ha scoperto di avere una figlia quindicenne incinta. Nel linguaggio dei fiori e delle piante i petali blu-azzurri del fiordaliso simboleggiano dolcezza e leggerezza, ma la dolcezza per lei è poca: il matrimonio riparativo è un disastro di botte, ma Fiordaliso riesce ad andarsene in tempo grazie alla famiglia, si riappacifica con il padre e quando è il momento di cantare a Sanremo non infila nemmeno un sorriso in quei tre minuti e poco più, ma incanala così bene la sua rabbia che venderà sei milioni di copie. Una la chiederò in regalo anche io, per le mie piume incagliate nella palude di una vita stagnante.  

Eppure Fiordaliso Piacenza la amerà sempre, come Isabella Ferrari. La amano tutti quando se ne vanno. Anche lei dirà «Eravamo una famiglia molto povera e siamo stati aiutati, quindi sarò sempre riconoscente a Piacenza. È una città che mi fa sentire protetta e che non mi tolgo dalle ossa. Quando sono a Roma, mi manca anche la nebbia di Piacenza». Tante grazie, da Roma è facile.

Come una gazza ladra

LaPresse

Degli Invincibili del Marconi, quello che ululava sui tetti fortissimo Non voglio mica la luna, è diventato per un po’ il mio fidanzato. Aveva un naso molto bello e una casa con piscina a Podenzano, un padre che pilotava macchine ed era sempre affamato. Spesso mi chiedeva di sgraffignare un panino per lui, così potevamo stare insieme più tempo (il giovedì, gli studenti avevano la libera uscita fino alle 22:00). Non ero la prescelta, solo una preda facile: mi portavo addosso la fame di soldi, «fammi fare un bagno in piscina, sono tua». L’esaltazione del mio desiderio stava tutta lì.

Quando arrivava il fine settimana l’Invincibile spariva nella sua vita da ricco, mi tradiva, io lo aspettavo – schiava volontaria e fedele del mio sogno di ricchezza – insieme a Neve e al precettore. Piacenza era per lui un luogo di passaggio, dunque non aveva paura di morirci alluvionato come me. Correva nel futuro come suo padre faceva con le macchine, e andava lontanissimo.

Mentre venivo lasciata indietro, studiavo come si fanno i soldi.

A Piacenza si diventava ricchi con il cemento, la città ancora si inchinava a Giovanni Rossi, pioniere illuminato di Ponte dell’Olio e proprietario della Cementirossi: partendo da una piccola fornace del padre, era diventato il primo in Europa a introdurre nel secondo dopoguerra il gas metano nei processi di combustione del cemento armato pre-compresso. Io, che ancora non capisco cosa voglia dire, mi sono buttata su Giorgio Armani. Lui lo capivo.

Nato a Piacenza nel 1934 da una famiglia poverissima, Giorgio è diventato re partendo non da un legante idraulico miscelato con acqua ma da qualcosa di più impalpabile: l’eleganza – soprattutto interiore – dei suoi genitori. «L’eleganza è un pensiero e un atteggiamento che mettono in scena la vita, senza strappi né esaltazioni, dove ogni dettaglio suggerisce padronanza e sicurezza – racconta il re – Il lusso può esprimere al massimo livello questa tensione emotiva, ma può anche trasformarsi nel suo contrario».

Così, per anni mi sono allenata a studiare come ci si veste senza strappi né esaltazioni, seguendo il suo percorso emotivo: «Mia madre faceva i vestiti per noi ragazzi: cose semplici ed insieme eleganti, non sfiguravamo a confronto con i nostri amici ricchi, che addirittura ci invidiavano. Forse il mio gusto per le cose sobrie, discrete, essenziali, nasce inconsciamente anche da quel ricordo infantile».

Ma ho fallito: la mia adolescenza esplosa negli anni Ottanta – quando i colori fluo erano l’unica possibilità di spezzare la pervicacia della nebbia – e la baracconaggine che da sempre mi vede gazza ladra impazzita anche per le carte dorate dei cioccolatini, mi hanno depistata.

Però, come il re, ho capito che i vestiti mi avrebbero salvato la vita. Lui racconta: «Abbiamo avuto un periodo in cui tutte le notti, alle tre o alle quattro del mattino, venivamo svegliati dai nostri genitori e portati nei rifugi, perché c’erano le formazioni aeree che arrivavano. Molti attribuiscono a questa mia infanzia difficile la mia capacità di immaginare mondi meravigliosi attraverso i vestiti.» E io ho fatto lo stesso, anche senza bombardamenti. Ma ho cambiato re, scegliendo quello che metteva in scena i vestiti più adatti a me, al sapore di liscio. Devo infatti a Raoul Casadei il mio amore per il tulle, l’organza, i lustrini e gli abiti improbabili. A Piacenza il tempo scorre in modo strano: la polvere divora alcune cose, ma non intacca altre che, superati i confini regionali, si immaginano dimenticate. E invece le balere resistono, e crescono ancora gli alberi della cuccagna. Ed è in una di queste balere che, più di trent’anni fa, ho incontrato Raoul e ho capito che mi sarei per sempre vestita a festa. Quegli abiti non erano eleganti, ma guizzava da spacchi e oblò la fatalità di ciò che sarebbe accaduto dopo quelle danze, perché erano vestiti fieramente sconci, pieni di aperture e passaggi segreti. E io, che agognavo una vita parecchio sconcia, li ho usati come rifugio, promessa e sogno per volteggiare lontana da Piacenza seguendo Fiordaliso: direzione Roma.

Molti degli Invincibili del Marconi sono invece rimasti a Piacenza, i motori delle loro macchine utilizzati soprattutto per addormentarsi con il gas di scarico.

Il migliore amico del mio ex fidanzato ha aspettato più tempo: si è suicidato pochi mesi fa: le vene recise e, per essere certo di morire, come un samurai si è anche accoltellato il petto. Qualcuno, infine, è stato portato via come Jeanette: la percentuale di disgrazie e incidenti nella mia città ci falcidiava come le cavallette che, in un’estate particolarmente calda, avevano conquistato ogni superficie diventando tappeto: le sentivamo scricchiolare sotto le ruote delle nostre macchine quando passavamo. Ci facevano schifo, non provavamo pena per loro.

La classifica

Ho letto da poco la classifica del Sole 24 Ore, dove Piacenza svetta in cima al resto d’Italia per la qualità della vita dei giovani fra i 18 e i 35 anni.

Io a Piacenza torno spesso, le voglio anche bene, e se per caso una notte di nebbia mi coglie all’improvviso sospiro un po’, ma poi ripenso a Jeanette, agli Invincibili, a me che se rimanevo anche solo un giorno in più diventavo certamente cavalletta, e a quella classifica non credo.

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