Garlasco a reti unificate: lo vedo anche alla prima della Scala

Domenica Domande che mi sono posto mentre vedevo Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk di Šostakovič. 1) In tempo di femminicidi, vorrà dire qualcosa il fatto che la prima della Scala tocchi a un’opera con una serial killer come protagonista? 2) Vorrà suggerire qualcosa la scelta della più bella opera russa proprio quando la Russia di Vladimir Putin minaccia il mondo con il suo delirio di onnipotenza? 3) Quanto ha contato il particolare che fu Stalin a censurare il capolavoro di Šostakovič cancellandolo dalle scene? 4) Per venire, invece, alle cronache di casa nostra: il regista (russo) Vasily Barkhatov facendo cominciare lo spettacolo in un commissariato, con agenti intenti a prendere impronte digitali e sottoporre a SIT (sommarie informazioni testimoniali) i personaggi della vicenda, ci autorizza a instaurare un parallelo con il giallo di Garlasco ormai appuntamento televisivo fisso a reti unificate? 4 bis) E rientra sempre in questo discorso la grande scopata alla fine del primo atto (la più focosa scena di sesso nella storia della lirica) raccontata alla maniera di un incidente probatorio, dove i partner sono ammanettati stile bondage e l’orchestra è lanciata al galoppo come se non ci fosse un domani e nemmeno un dopodomani? 5) Restando in casa nostra, il particolare che il regista ambienti l’allestimento in un ristorante va interpretato come un’allusione sarcastica alla mania dei cooking show. (A proposito, giovedì ritorna Masterchef, invoco un “Cessate il cuoco”). Tolstoj e vecchi numeri di ABC. Rimedi per la tristezza natalizia Lunedì Una bella opera lirica ti rimane in circolo nelle vene anche il giorno dopo la rappresentazione. Stamattina mi sono svegliato chiedendomi se Alberto Arbasino, il più grande, riverente e, al contempo, irriverente cronista di opere liriche minuto per minuto, sarebbe mai arrivato a immaginare la Lady Macbeth di Šostakovič messa in scena, come nei sabati sera tv di una volta, dal sempre più rimpianto Quartetto Cetra. Un allestimento che purtroppo non vedremo mai e in cui i due amanti diabolici si sarebbero comportati quasi sicuramente così. Lei, Katerina L’vovna Izmajlova, avrebbe cantato Tutto il resto è noia di Califano. Lui, Sergej, Ghiaccio bollente di Tony Dallara. Scherzi e arbasinate a parte, la prima della Scala mi è piaciuta moltissimo e in ogni aspetto musicale e scenico: bravissimo il direttore Chailly, bravissima l’orchestra, bravissimo il regista, bravissimi i cantanti e tutto il resto. Se incontrassi Vasily Barkhatov gli chiederei due cose. Nella scena delle frustate c’era una citazione da Jesus Christ Superstar? È giusto, anche se non può dirlo perché rischierebbe la vita, scorgere un’allusione alle grandi manovre di Putin quando il coro intona «Oh cammino che porti in Siberia, da catene e cadaveri segnato. Oh cammino di sangue imbevuto» e quando il camion militare entra in scena sfondando una vetrata? A me pare di sì e ho provato una sincera apprensione. Ormai Schiavone è un amico. Il nostro caso JFK? È Moro Martedì Stamattina vado a prendere la macchina e non dà più segni di vita. Chiamo il carro attrezzi. Il meccanico, un signore mediorientale di nome Ibrahim, dice: «Cerchiamo di ricaricare la batteria con il booster, però prima si faccia il segno della croce. Sono musulmano ma me lo faccio pure io». Sembrava Ornella Vanoni quando cantava: «Proviamo anche con Dio, non si sa mai». La notte che incontrai Italo Calvino in camera di rianimazione Mercoledì Posta. Pio Ciampa scrive: «Ero poco più di un ragazzo quando lessi L’affaire Moro di Sciascia» e lo trovo un incipit molto suggestivo. «Altri tempi, di Sciascia all’orizzonte non ne vedo», continua il vecchio amico, e questa è una verità inconfutabile. Prosegue sconfortato: «Vedo solo saggi di Cazzullo e gialli di Ualter. R4 di Trellini (Strade blu Mondadori) lo consiglierei come libro di scuola nei licei, io l’ho fatto leggere alle mie figlie». Nella Pieide (da quanti anni la sta componendo una mail alla volta!) “Ualter” è Walter Veltroni. La chiusura è un soprassalto di orgoglio sudista: «Reggio Calabria è ultima nelle varie classifiche di vivibilità. Reggio è magnifica, lungomare stupendo, gente ospitale, costo della vita bassissimo, un mare da favola, il sabato sera tanti giovani nei vari chalet, nei locali, tutto tranquillissimo. Aria pulita». Ha ragione, caro Pio, Reggio è bellissima. Una volta ci trascorsi un weekend con il filosofo Giulio Giorello. Non la conosceva e ne fu conquistato. Una domenica mattina in cui le condizioni atmosferiche erano quelle più adatte, ci mettemmo di vedetta sul lungomare sperando di assistere al fenomeno della Fata Morgana. Giulio, che era coltissimo ma con una leggerezza che incantava, mi raccontò che qualcosa di simile accadeva anche all’estremo Nord, da qualche parte in Scandinavia. Quella volta, sotto la mia guida, il professor Giorello scoprì la ’nduja e se ne fece una discreta scorta («Mai più senza», aveva detto). Gliela sequestrarono tutta ai controlli dell’aeroporto. Non gli lasciarono nemmeno un vasetto come souvenir. La puntata della Pieide si chiude con un P.S.: «Manzini sta diventando ripetitivo e noioso, ti consiglio i gialli del tuo collega Roncone». Devo dissentire. Sotto mentite spoglie (Sellerio) l’ultimo di Manzini, è un romanzo non equo e non solidale, nel senso che somiglia sempre di più alla vita e non alla letteratura come oggi è comunemente intesa. In questa avventura del vicequestore Schiavone si auspica l’introduzione di un nuovo reato nel codice penale, quello di «faccismo di cazzo reiterato». Non solo una battuta, ma una descrizione del paese più veritiera di cento Rapporti Censis. P.S. Pio, consigliare a me i gialli di Fabrizio Roncone è come portare vasi a Samo o perizie sul Dna a Garlasco. Quando Liedholm sbagliava. Ecce Bombo mi commuove Giovedì Prima di cominciare a leggere il nuovo romanzo di Patricia Cornwell, Taglio letale (Mondadori), ho chiuso gli occhi e mi sono fatto un’auto-SIT su ciò che so della scrittrice che ha inventato Kay Scarpetta. La sua biografia è avvincente e più che al passo con i nostri tempi. Americana verace, discendente da Harriet Beecher Stowe, l’autrice di La capanna dello zio Tom, si sposò la prima volta con il suo prof d’inglese, di 17 anni più vecchio, che a un certo punto scelse di fare il predicatore (per reazione alla vita coniugale?). Seguì una tempestosa relazione sentimentale con una agente Fbi sposata a un agente Fbi. Quest’ultimo, quando scoprì la tresca, tentò di rapire la moglie e la vicenda finì in tribunale con la Patty chiamata a deporre (la vita imita l’arte). Sessualmente inquieta (quasi quanto la Lady Macbeth di Leskov e Šostakovič, un personaggio di cui avrebbe potuto tranquillamente essere l’autrice), a cinquant’anni Patricia fece coming out. Ora è sposata con la psichiatra Staci Gruber (parente?). Colleziona quadri del pittore inglese Walter Sickert (1860-1942), famoso per la crudezza dei nudi, che un po’ prefigurano quelli di Francis Bacon, e per un dipinto dal titolo La camera da letto di Jack lo Squartatore. Ma Patricia non lo fa per passione artistica: è convinta che Sickert fosse il famoso serial killer londinese. Celebre giallista, ma ancor più autrice catastrofista, profetessa di sventure. Non so se per influenza del primo marito, ama le citazioni dell’Apocalisse: «Udii poi una gran voce dal tempio che diceva ai sette angeli: “Andate e versate sulla terra le sette coppe dell’ira di Dio”». E sospetta che la tecnologia non ci farà più civili, anzi forse otterrà l’effetto opposto. Splendida intuizione, chiave interpretativa definitiva di quello che sta succedendo nel mondo. Fine dell’auto-SIT. Sto per cominciare a leggere Taglio letale, quando lo sguardo mi cade sulla foto dell’autrice: bionda, aria severa, imbronciata, sguardo freddo, trucco marcato, abbigliamento di gusto e taglio maschile. Ho un’illuminazione: che sia Patricia Cornwell il modello a cui si ispira la criminologa Bruzzone? Pasolini è un romanzo noir. Quanto ci ispira Gaber Ieri Posta. Giovanni Tuliozi: «Mi permetto una precisazione. La battuta “Mente sapendo di mentine” non è farina del sacco di Francesca Bugamelli. Fu coniata verso la fine degli anni Settanta dagli Indiani Metropolitani, riferendola all’allora sindaco di Bologna Renato Zangheri.Bei tempi». Non mi tocchi Francesca Bugamelli, in arte Bugalalla, è la più brava del reame. Scavi archeologici in archivio, reperti di Ongaro e Pasolini La mail per scrivere ad Antonio D’Orrico, che risponde, è lettori@editorialedomani.it