Lo spazio per stare al mondo: “indagare” l’ambiente di casa

Questa settima edizione della Biennale della Fotografia dell’Industria e del Lavoro di Bologna (fino al 14 dicembre 2025) pone l’accento su una questione assoluta dello stare al mondo: la casa. Colpisce e riempie molto il cuore il salto mentale ed emotivo che il direttore artistico della manifestazione, Francesco Zanot, ha fatto nel riportarci con estrema grazia sia al punto finale che al punto di partenza del vivere umano. E quindi del nostro industriarci da decine di migliaia d’anni (perlomeno) a dare concretezza allo spazio nel quale poi ci si ripara, ci si cura, ci si consola, ci si relaziona in modo complesso con tutti gli esseri viventi (umani e non) che abitano dentro i metri quadri nel quale può avvenire quella vita privata che il lavoro ci consente. E che anche il non lavoro comunque ci consente, in modo arrangiato e pieno di paura. Questo accade in un momento in cui (almeno nell’Occidente avanzato) l’erosione del reddito e della capacità di spesa della metà della popolazione senescente – e non – è diventata gigantesca, con l’ingresso dentro zone di povertà in Europa di milioni di persone ogni anno e di famiglie italiane in grande numero negli ultimi trimestri. Ed è anche un lungo momento durante il quale l’esplodere delle relazioni in episodi che una volta sarebbero detti efferati è litania quotidiana che ci riporta alla natura anche sadica di quella che Le Corbusier famosamente chiamava una «macchina per abitare»: l’appartamento dove (da ben più di un secolo, quasi due) è stato compresso il nucleo bifamiliare, quadrifamiliare, monofamiliare. Questo ci butta dentro gli occhi quegli interni di cucine e camere da letto di case dilaniate da ruspe e ordigni di ogni tipo che negli ultimi due/tre anni hanno raso al suolo le case di almeno due aree specifiche del mondo, con una violenza inusitata diventata uno stato di costante esplosione e sgretolamento di santuari familiari già pericolanti. Distruzioni dell’intimità che hanno preso un posto permanente nella nostra psiche. L’umanità ritratta in tempo reale, la vittoria dell’esperienza sulla memoria. L’opera di Forensic Architecture Per questo, tra le undici mostre che compongono la rassegna, il posto più importante inevitabilmente va a quella di Forensic Architecture, che è uno straordinario centro di studi londinese sulla realtà dei conflitti che (come ci dice il loro nome) raccoglie prove di perpetrazioni che sono avvenute e avvengono in numerose zone del pianeta. [Missing Caption][Missing Credit] È stato Forensic Architecture a darci il numero dei morti quotidiani della titanica aggressione a Gaza e nei Territori occupati che è avvenuta in questi due anni da parte delle forze israeliane, con un lavoro costante che ha reso questo think tank avanzato un punto di riferimento assoluto per trovare informazioni, altrimenti composte da milioni di schegge dentro la sfera impazzita dell’informazione generale. Il “collettivo” ha messo in piedi nel basamento di Palazzo Belgioioso, che di fatto è ovviamente un’abitazione, un attentissimo studio per raccogliere le prove dell’esistenza di villaggi palestinesi nel 1948 nel momento dell’insediamento di coloni ebrei. Sono documentazioni che sono state raccolte attraverso vari strumenti e metodi, essenzialmente satellitari. E soprattutto attraverso il lavoro di memoria di chi ancora vive e racconta l’esistenza di villaggi che altrimenti erano stati sradicati dalla storia. Il racconto ufficiale è sempre stato quello infatti dell’arrivo dei coloni in un territorio vuoto. No. Non era così. C’erano tante case. I territori erano popolati eccome. Attraverso sia strumenti di mappatura di rilievo digitale che attraverso appunto il racconto di chi c’era, viene ridato un pezzo di verità costruendo così un racconto inedito ai più e che diventa fondativo. Parallelamente una grande proiezione su una grande parete ci ricorda il presente, ci ricorda l’assurdità delle piogge di volantini che annunciavano poche ore prima i bombardamenti che avvenivano nei territori in questi anni, con i bambini che fanno gli aeroplanini e giocano con questa sorta di neve che cade dall’alto. Un’immagine terribile e di terribile e innocente abitudine alla morte e alla deflagrazione dei nuclei abitativi, già precarissimi. Moira Ricci, in morte della madre: le fotografie come soglia tra verità e finzione La fragilità dello stare al mondo Altre due mostre (tra le undici che compongono la Biennale) consentono di capire ancor meglio il “disegno” commosso di questa edizione. La prima – alla Pinacoteca Nazionale di Bologna – è una scoperta di una fotografa tedesca 87enne, Ursula Schulz-Dorburg, che ha viaggiato ovunque con la sua camera fotografica, per tutta la vita. [Missing Caption][Missing Credit] Una signora abbiente evidentemente, questo non le ha impedito di sentire (beh.. ci mancherebbe), ma soprattutto di presentire la condizione estremamente fragile dello “stare” al mondo, a rischio costante di essere spazzata via da un soffio. E che ricorda quella che potrebbe essere un’evoluzione molto attendibile: la friabilità del vivere che la condizione geopolitica, economica e anche tecnologica potrebbe portare di qui a breve. Schulz-Dorburg fotografa in bianco e nero le case lungo il Bosforo in Turchia, che poi non sono dimore, sono piccoli stabilimenti balneari che hanno la forma di ville di cartapesta, bellissime, e che sono il normale affaccio sul fiume. Hanno solito le sembianze di mini-kursaal, di mini-palazzi che ci ricordano la scoperta dell’estate, del sole, dell’acqua che avvenne a cavallo tra l’Ottocento e il Novecento. Ma non basta: la fotografa viaggia per trovare queste sorte di case e finti palazzi sghembi ovunque. Su palafitte, in Indonesia, con lavori di grande poesia sulla bellezza e sulla friabilità della condizione abitativa. E così avanti arriva fino ad una bellissima sezione che racconta di una sorta di città libera per bambini a Copenaghen, che fu messa in piedi durante gli anni Settanta, in cui gli adulti non erano ammessi (ci ricorda qualcosa dei fatti di cronaca della “famiglia del bosco”? Beh sì). Vediamo ragazzini costruire case senza alcuna nozione, con chiodi e assi eccetera eccetera, vediamo ragazzini mettere in acqua delle barche che si sono arrangiate da soli, le foto sono sia nero che su colore sono stupende. Qui c’è la forza pura di chi si forma un mestiere per gioco e non, di chi si industria ancora una volta a immaginare un mondo che viene su senza senza esperti, senza che nessuno dica come si deve fare. Bellissimo. Nella fotografia di Nan Goldin il personale è sempre politico Lo sguardo di Wall L’abitare e la casa sono ovunque nell’obiettivo di Jeff Wall, cui è dedicata la mostra principale alla Fondazione Mast (Living. Working, Surviving, fino all’8 marzo 2026). Si parte addirittura dalla casa, diciamo, finale: la “foto” di un enorme cimitero che ricorda molto il “cinemascope” di Michael Cimino. L’artista costantemente dice di essere un “cinematographer”, un operatore di macchina del cinema. In questo caso è appunto un lightbox del 1980, molto stretto e lungo, che dà questa visione di un intero cimitero canadese, con uno sfondo di città industriale ed industriosa che appare spessissimo anche negli altri lavori della mostra. L’affaccendarsi nella vita diventa a volte il set della gran parte dei lavori: piccole scene di due persone appoggiate al muro in strada, un bellissimo dittico di un giovane uomo ricoperto di sangue, ma tranquillo. C’è uno stupendo affresco “indiano”, si direbbe: un giovane signore che ritorna o che va al lavoro con lo sfondo gigantesco di tempo hindu. Ma c’è anche l’operosità – ed è uno dei pezzi più belli di questa Biennale – di un uomo e una donna che trascinano una sorta di motore con un lenzuolo, che portano un peso. Troviamo anche i ritratti di un macchinario puro e semplice o di un impiegato che striscia dentro il corridoio di un ambiente lavorativo, fino al ritratto in orizzontale del workout di un bodybuilder, in bianco e nero. Se ne esce nel complesso dalla Biennale molto grati. Se ne esce (visto che è il rischio costante di essere ridotti in poltiglia, interna e fisica, il centro di molte delle frecce di questa faretra) emozionati, scossi, traballanti. Se si pensa anche all’assunto da quale si era partiti (Foto/Industria), è evidentemente un grande risultato. Vivere, lavorare, sopravvivere. Questo è. Questo facciamo. Jeff Wall crea fotografie come se fossero un film