Nulla è meno superficiale della moda, o dello stile in generale. È un’affermazione banale, a prova di idiota: sono la nostra rappresentazione nei confronti dell’esterno, del mondo e dell’intera popolazione degli esseri viventi, umani e non. Basta sfogliare un qualunque sussidiario di antropologia. È inutile arricciare il naso.

Nessuno ne è fuori. La moda che un tempo si chiamava maschile, soprattutto. 

Straordinaria, gloriosa, astrale o semplicemente altamente immaginifica nel corso di secoli e secoli, coloratissima e scintillante e piena di trucchi, brutale e poveramente “circolare” nella più parte dei casi, ma in ogni caso libera, e anche vagabonda, piratesca, sincretica. 

Dal grigio al colore

A un certo punto, a partire dai primi anni del Novecento, si precipita in uno strano formalismo grigiastro: quello dell’uomo borghese di massa, legato alla “presentabilità”. Si finisce dentro la divisa giacca/cravatta soprattutto del “quadro” o del medio dirigente fino all’impiegato medio (basta leggere Veblen e Krakauer, per chi ne ha voglia, o semplicemente Alessandro Giammei sull’“Arrow Collar Man” e il resto nella nostra newsletter Cose da maschi).

Ed ecco in parallelo sorgere per gli stessi soggetti il “tempo libero”, gli sport e le divise varie, il relax dei maglioni e dei pantaloni morbidi, cui seguiva il trionfo della domenica, in Italia indifferentemente per democristiani e comunisti. Lo struscio, la rappresentazione spesso molto forzata di sé e della mascolinità in genere, il teatro della “dignità” a testa alta di fronte al paese, al quartiere, alla propria classe sociale, la tragicommedia della forza fisica e soprattutto del potere. 

Si trattava della pulizia in tutti i sensi della debolezza per non dire della fluidità (l’abbiamo scritto, sì) prima imperanti. 

È un’uniformità con differenze qualitative – per ovvie ragioni – ma anche sfumature geografiche, legate in seguito anche alla topografia dei luoghi di villeggiatura marini o montani che si rafforzavano a mano a mano con le vacanze comandate (non a caso Umberto Eco dedica proprio al “tempo libero” la Triennale del 1964, riprendendo tematiche sorte nel terreno statunitense anche dieci anni prima). 

Questa perturbante messa in scena, a un certo punto, nell’ultima parte degli anni Sessanta, inizia a sbriciolarsi come molte altre cose poco dopo, con la definitiva invenzione commerciale della categoria merceologica “giovani”, l’apertura chimica delle coscienze e la conseguente idea di un altro futuro solo apparentemente impossibile. Da quel punto in poi nasce un lungo periodo storico, e quindi culturale, che arriva fino a noi.

Non fatevi ingannare dalla baggianaggine dei “decenni”, continuamente ripescati in termini di stile. Andiamo un poco più in profondità. 

Siamo dentro a una “lunga durata” del tempo almeno cinquantennale (circa 1970-2020) durante la quale a mano a mano, inesorabilmente, il “colletto bianco” si sgretola per aprirsi verso l’indifferenza del genere, la dominazione dell’abbigliamento che un tempo si chiamava “casual” e l’ancor più inarrestabile impero dell’abbigliamento sportivo, il ritorno dell’ornamento (chiamiamo così l’“accessorio”) e del luccichio come segno di potenza, la rinascita galoppante del colore, la venerazione arcaica del sigillo/brand altamente visibile, il cambiamento delle forme più vicine all’idea di quel “futuro” (appunto) che ci immaginavamo e contemporaneamente di quelle pre-novecentesche, il meticciato negli stili e l’ascesa delle seconde generazioni di immigrati in Europa come alti portatori di potenza visuale e non solo, la sessualità di ogni tipo ma esplicita fino alla quasi-nudità, la maggiore attenzione dell’erosa classe media alle forme di sbandierate artigianalità ed eccellenza italiche anche nel vestire tradizionale (tessuti e calzature comprese), una ritrovata libertà in capelli barba e baffi e pelo sul corpo (coperto da nuovi cosmetici di precisione), i vestiti dei personaggi degli ambienti immersivi dei (video)giochi, l’impazzimento delle temperature e quindi il brillare della stagionalità della moda stessa in un’esplosione di mille cristalli e capsule. 

Differenze sfumate

Pigliamo un po’ di fiato, ora, anche se sono rimasti fuori parecchi aspetti, di sicuro. 

Siamo ancora lontani dal tramonto della rappresentazione del rigido patriarcato bianco, tutt’altro che finito e tuttora imperante specie nel vecchio potere. Ma l’assalto alla fortezza dello stile novecentesco è stato inesorabile e molte mura e porte sono crollate. 

Enorme è stata poi in tutto il mondo l’assimilazione della cultura gay e della sua estetica che dal margine è passata al centro del discorso, a partire, come da stereotipo, dagli “stilisti” stessi per approdare silenziosamente al machismo del ghetto fino a eroderlo dall’interno (battaglia non certo vinta, sia chiaro). 

Mancano ancora tre elementi, per il momento.

Ovviamente c’è la nascita, a partire sempre dagli anni Settanta, della tecnologia da garage che poi esplode fino a riuscire a trasformare in toto la vita, con un’accelerazione mai vista nella storia dell’umanità, e il conseguente sorgere dell’economia immateriale e poi digitale (con i ceo miliardari in t-shirt, braghette al ginocchio e infradito in riunioni col capitale mondiale), incluse interazioni e rappresentazioni social

A questo va collegata anche la nuova ridefinizione degli steccati tra lavoro e vita “privata” data dalle tecnologie mobili e accelerata ovviamente dal lavoro da remoto nel periodo pandemico degli ultimi due anni, con tutta la trasformazione dell’abbigliamento, e del design, che è in corso. 

Infine c’è l’impatto della parallela potenza innovativa della scienza in termini di conquista di anni di vita e ridefinizione delle varie età. La durata centenaria della propria esistenza terrena porta alla manutenzione di una salute continua (plastiche, prostetica e medicina genetica incluse).

Ed ecco quindi la caduta o perlomeno lo sfumarsi delle differenze tra adolescenza (che ora parte dai 10/11 anni), adultità, maturità e vecchiaia, parallela alla trasformazione demografica in occidente frutto di un calo demografico clamoroso.

Da qui il proliferare di cellule monofamiliari e (sperabilmente) l’affermarsi di reti amicali intergenerazionali di nuovo genere, e di solitudini/singletudini più o meno libere da ogni costrizione o schema. 

Per ora, basta. 

Parliamo di moda. 

Abbiamo messo insieme una sorta di giro di discussione (con modalità e tempi diversi) su tre domande centrali per meglio entrare nel cuore delle cose. 

E per questo abbiamo chiamato un superteam: Gert Jonkers, editore e direttore di Fantastic Man (unanimemente considerata la migliore rivista internazionale di stile maschile degli ultimi dieci anni, con sede a Londra e Amsterdam); Guy Trebay, style reporter e chief men’s wear critic del New York Times; Angelo Flaccavento, tra i più talentuosi critici di moda al mondo e pilastro della piattaforma internazionale professionale “Business of Fashion”, molto potente nell’industria; Giorgio de Mitri, fondatore dell’agenzia di comunicazione Sartoria e da vent’anni consulente primario, per i rapporti tra stile e cultura, del ceo mondiale di Nike – Mark Parker – e conseguentemente dei quartieri centrali della supercompany a Beaverton, Oregon. 

Ne è venuto fuori questo coro/ritratto che potete leggere nel numero speciale di DopoDomani dedicato alla moda e nelle interviste di seguito:

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