Lo sport è un diritto di tutti» è una frase che sentiamo spesso. La ritroviamo come slogan nelle pubblicità, alle manifestazioni agonistiche e amatoriali, dappertutto. Ma se le donne hanno avuto accesso alle Olimpiadi nel 1900, lo stesso non si può dire per le persone transgender che hanno dovuto aspettare quelle di Tokyo 2021.

I parametri

Fino al 2003 era impossibile parlarne. Le persone transgender non esistevano all’interno del circuito sportivo agonistico. Il Cio (Comitato internazionale olimpico) ha iniziato da quell’anno ad aprire una minuscola porta verso il mondo transgender, ma a delle condizioni ben precise e discriminanti: l’obbligatorietà dell’intervento chirurgico di riassegnazione del sesso, due anni di terapia ormonale come documento per dimostrare di essere atleta uomo o donna, e la certificazione legale del proprio genere. Dal 2003 al 2016 nessunə atleta transgender ha mai partecipato ai Giochi olimpici invernali o estivi. Solo a novembre 2015 il Cio ha effettuato modifiche importanti alle proprie regole con la collaborazione di un comitato medico presieduto dalla dottoressa Joanna Harper, delineando nelle nuove linee guida come sia «necessario garantire, per quanto possibile, che gli atleti transgender non siano esclusi dalla possibilità di partecipare alle gare». È stato abolito l’obbligo dell’intervento chirurgico, richiedendo alle atlete MtF (male to female), biologicamente nate maschio che si identificano come donna, la dimostrazione di un livello di testosterone inferiore a 10 nanomoli per litro (nmol/L) almeno un anno prima della competizione. Mentre gli atleti FtM (female to male) possono competere senza restrizioni. Dimostrare un tasso inferiore di testosterone significa assumere dei farmaci consentiti. Anche in questo caso la vicenda ha sollevato dubbi e polemiche, poiché da un lato si sostiene che l’assunzione di farmaci possa mettere a rischio la salute delle atlete transgender, mentre dall’altro si ritiene che quegli stessi farmaci non creino parità ma che mantengano comunque un vantaggio sulle altre atlete cisgender (coloro cui sessualità e identità di genere coincidono).

La perdita di velocità

Nel 2015, la dottoressa Harper, ex atleta e transgender dal 2004, ha pubblicato il primo studio sulle prestazioni delle atlete transgender nella corsa, scoprendo come le atlete che hanno ricevuto un trattamento farmacologico per abbassare i livelli di testosterone non abbiano ottenuto sul campo e in varie gare dei risultati migliori contro le loro colleghe, rispetto a quanto avevano fatto in precedenza contro i corridori maschi, diventando quindi più lente. Le atlete transgender non hanno alcun vantaggio perché con la terapia diminuisce la loro velocità. Nel 2019 il World Athletics (ex Iaaf) ha deciso di modificare il limite di testosterone a 5 nmol/L, allineandolo anche alle normative delle atlete intersessuali o dsd (disorders of sex development), ovvero le persone con caratteristiche anatomiche e fisiologiche che appartengono a entrambi i sessi costrette a prendere farmaci perché considerate biologicamente maschi.

Valentina Petrillo

A settembre 2020 Valentina Petrillo è diventata la prima atleta transgender paralimpica a partecipare a un campionato italiano nella categoria femminile, categoria cui sente di appartenere. È una velocista ipovedente T13 (la classe sportiva nell’atletica leggera paralimpica dove T sta per track e 13 indica l’ipovisione), per la Fispes veste la maglia dell’Omero Bergamo e ha conquistato non solo il suo primo titolo di categoria a Jesolo e Ancona, ma anche ai Campionati italiani master di Arezzo gareggiando tra le normodotate con la squadra Fidal del Pontevecchio Bologna. «E sono attualmente la prima persona che riesce a gareggiare con le donne pur avendo dei documenti maschili» spiega la Petrillo, che sarà anche la prima atleta transgender italiana a correre per qualificarsi alle Paralimpiadi di Tokyo.

«Sono considerata una donna solo nel mondo sportivo. Ho fatto l’istanza al tribunale per il cambio dei documenti, ma non so se prima di Tokyo riuscirò ad averli. Sta di fatto che, nonostante sia purtroppo legalmente un uomo, per lo sport sono riuscita a rientrare come donna grazie alle linee guida del Cio del 2015. Sono la prima al mondo ad applicarle, non c’è alcun impedimento legale ed è un record anche per l’Italia che si ritrova più avanti degli Stati Uniti su questo tema».

Il percorso di Valentina è partito nel 2019, quando ha deciso di iniziare il trattamento ormonale. «Nel 2018 ho comunicato che non avrei più gareggiato nella Fispes come Fabrizio. Non mi sentivo uomo, mi ero stufata di fingere, non riuscivo più a condividere spazi maschili e spogliatoi. L’anno dopo ho iniziato la terapia ormonale nella speranza di fare sport nella categoria cui sentivo davvero di appartenere – dice la velocista –. Ho saputo delle linee guida e ho contattato la mia federazione dato che rientravo nei parametri. Al Cio non interessa chi sei a livello documentale, ma ormonale». La voglia di ritornare a correre, tagliare il traguardo e rimettersi in gioco ha portato Valentina a conoscere il lavoro della dottoressa Harper, ormai una costante nella sua vita: «Quando mi è stato detto che nessuno si sarebbe preso una responsabilità così grande perché non era mai stato fatto in Italia, ho fatto delle ricerche e ho trovato lo studio della Harper che ho contattato. Mi ha risposto subito, felice del mio percorso e del fatto che lei stessa era alla ricerca di sportive di alto livello nell’atletica leggera per la sua ricerca. Per me è stata un raggio di sole, era l’unica che poteva darmi delle risposte. È stata lei a dirmi che avrei perso velocità visto il cambiamento, così è successo. Dopo sei mesi dal trattamento ho potuto constatare che ero più lenta. Joanna mi aveva preannunciato tutto. Ora mi monitora, assieme ai medici Fispes, Fidal e della World Athletics, le invio tutti i miei tempi compilando nuove schede ad hoc».

Più lenta ma più felice

«Meglio essere una donna più lenta ma felice che un uomo più veloce ma triste» è una frase che la Petrillo ha coniato per sé stessa e per la sua storia fatta di soddisfazioni, ma anche di compromessi: «Non è stato facile vedere la mia velocità calare. Dopo tre mesi non riuscivo più a correre, c’era un disallineamento tra mente e corpo. Poi ho visto dei cambiamenti anche a livello interiore e questo mi ha dato la forza per andare avanti. Ora sono più felice e va bene così». Va bene nonostante lo scetticismo la segua: «Gareggiando anche con le normodotate, ho ricevuto delle lamentele. Poi hanno iniziato a conoscermi e ho messo la mia esperienza a disposizione di tutti. Credo molto nello sport, mi sono chiesta se fosse giusto facendomi mille domande, ma non puoi far sempre felici tutti. Quello che però mi ha stupita, specie con le normodotate, è che nessuna sapeva dei miei problemi di vista. E la mia è una malattia abbastanza grave. A quanto pare l’essere transgender supera la mia disabilità».

Il futuro a Tokyo

Una prima tappa importante è stato il weekend del 16-18 aprile a Jesolo, al Grand Prix internazionale paralimpico, dove i suoi tempi sono stati inseriti nei ranking mondiali e validi per il pass di Tokyo. «Mi sono sottoposta alla visita di classificazione internazionale fornendo tutta la documentazione endocrinologica e psicologica, per avere la licenza Wps (la World Para Athletics ndr). Anche qui sono la prima, perché Valentina legalmente non esiste. I miei tempi sono entrati nel ranking mondiale che dovrò scalare fino ad arrivare tra le prime 8 del mondo. Sono in contatto con il tecnico della Nazionale che mi ha dato le indicazioni sui tempi da realizzare, il mio obiettivo è fare dei buoni tempi per essere convocata agli Europei in Polonia arrivando a medaglia e poi andare a Tokyo».

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