Il 18 ottobre la commissione di Public design della città di New York era pronta ad approvare la rimozione di una statua di Thomas Jefferson dalla sala del consiglio comunale di City Hall e la sua cessione a tempo indeterminato a un’istituzione privata, la New York Historical Society.

I sostenitori denunciano Jefferson – nelle parole di un ex membro del consiglio che per primo aveva proposto la rimozione vent’anni fa – di essere stato un «pedofilo proprietario di schiavi», la cui presenza simbolica è un’ingiustizia lampante e un’offesa nauseabonda, in special modo nei confronti dei cittadini neri, ispanici e altri non bianchi.

Dopo una marcia di suprematisti bianchi a Charlottesville nel 2017, il sindaco Bill de Blasio aveva autorizzato la revisione di vari presunti simboli di “odio” esposti in tutta la città. La spinta per rimuovere Jefferson ha ripreso vigore sulla scia delle controversie in altri luoghi d’America sulla rimozione delle statue della confederazione e poi, le proteste di Black Lives Matter in seguito all’omicidio di George Floyd nell’estate del 2020, l’hanno resa più tesa.

I membri del consiglio comunale sono andati avanti fino al punto in cui sarebbe bastata solo una parola da parte della commissione di Public design, la cui maggioranza dei membri è nominata dal sindaco. Ma l’accordo, evidentemente, era già stato preso: anche prima dell’arrivo della decisione ufficiale, una cassa da imballaggio era pronta per trasportare la statua di Jefferson alla Historical Society.

​​Pur essendo nato e cresciuto a New York e con un interesse costante per la città e la sua storia, sono venuto a sapere di quello che stava succedendo soltanto qualche giorno prima dell’udienza programmata della commissione. Uno studente intraprendente del Graduate center di City University of New York, Todd Fine, stava aiutando a raccogliere le firme per una lettera in cui si chiedeva un compromesso: la statua sarebbe rimasta a City Hall ma sarebbe stata spostata nella stanza del governatore, dove era stata messa originariamente nel 1834 e dove è rimasta per decenni in seguito. Dopo aver compreso tutta la storia ho felicemente firmato la lettera e preparato una dichiarazione da leggere all’udienza ufficiale della commissione.

Caso controverso

I tentativi di ripudiare Jefferson sono abbastanza familiari. La rivalutazione di figure storiche tradizionalmente celebrate per il loro contributo all’uguaglianza americana non è nulla di nuovo, come nella denigrazione, molto criticata ma ampiamente letta, di Abraham Lincoln quale suprematista bianco, da parte di Lerone Bennett Jr.

Jefferson è diventato un caso particolarmente difficile in larga parte perché fu proprietario di schiavi, e per i commenti terribili fatti sugli africani nel suo libro Notes on the State of Virginia. Gli storici, inoltre, hanno sostenuto tesi di antica data secondo cui si dice che avesse rapporti sessuali e abbia concepito diversi figli con una delle sue giovani schiave, Sally Hemings, che pare fosse, quasi certamente, la sorellastra della sua defunta moglie.

L’interprete più autorevole delle relazioni tra Jefferson e Hemings, Annette Gordon-Reed, ha descritto quel legame come fondamentalmente assurdo e disuguale, ma infine anche rispettoso e di lunga durata. Eppure, contrariamente alle prove storiche di Gordon-Reed, Jefferson si è guadagnato una reputazione di stupratore, di sistematico abusatore di donne di colore e sadico proprietario di schiavi.

Se, quindi, si combinano insieme sufficienti falsità sensazionali sulla sua biografia è abbastanza semplice costruire il profilo di un Thomas Jefferson mostro perfetto, indegno di una celebrazione di alcun tipo, figuriamoci nella City Hall di New York.

Contraddizioni

Non c’è bisogno di accettare le descrizioni di Jefferson come di un mostro dal punto di vista morale per capire che aveva dei difetti di fronte ai quali qualunque osservatore imparziale del Ventunesimo secolo indietreggerebbe. Ma con un po’ di approfondimento la sua figura appare quella di un uomo dalle molte contraddizioni.

Notes on the State of Virginia in effetti contiene commenti sui neri da far rizzare i capelli, vicini alla visione condivisa tra i bianchi della Virginia. Ma contiene anche un’accusa di schiavitù razziale come offesa al cielo, una visione non comune in Virginia, specialmente tra gli schiavisti. («Tremo per il mio paese quando penso che Dio è giusto», ha scritto Jefferson, un commento che ha stupito il suo amico antischiavista del Massachusetts John Adams, «vale un diamante»).

C’è un primo Jefferson che prese posizioni decise contro la schiavitù, fino al punto di guidare un comitato del Congresso della confederazione nel 1784 per cercare di vietare l’introduzione della schiavitù in qualsiasi territorio americano. Una ventina di anni dopo, da presidente, completò l’abolizione della partecipazione degli Stati Uniti alla tratta atlantica degli schiavi. Poi c’è anche il Jefferson successivo, che fece un passo indietro rispetto a qualunque espressione pubblica di opinione antischiavista al punto, nel 1820, di sostenere l’introduzione della schiavitù nel territorio del Missouri nonostante l’obiezione intensa dei nordisti antischiavisti. 

Soprattutto, c’è il grandissimo contributo di Jefferson all’America, e in realtà, all’umanità, nella semplice affermazione della Dichiarazione di Indipendenza per cui tutti gli uomini sono creati uguali. L’affermazione universalista della Dichiarazione era un’affermazione profondamente radicale allora e rimane radicale oggi. Esprimeva un’idea che si estende oltre il tempo di Jefferson per ispirare futuri abolizionisti, difensori dei diritti delle donne e ogni varietà di sostenitori dei diritti umani.

Anche se c’erano stati egualitari radicali prima di Jefferson, non c’era mai stato nulla di simile alla Dichiarazione, che è diventata la base di un ordine politico democratico che rigetta monarchi, aristocratici ereditieri, teocrati. Inoltre, se Jefferson avesse prevalso sulle obiezioni dei delegati del Lower South, la Dichiarazione avrebbe incluso una denuncia della schiavitù e della tratta degli schiavi come violazioni «dei più sacri diritti alla vita e alla libertà» della natura umana.

Anche quando Jefferson era in vita c’era chi sosteneva che in realtà lui non credeva realmente in ciò che aveva scritto nella Dichiarazione, che intendeva invece che solo gli uomini bianchi erano stati creati uguali. Eppure mai, né in pubblico né in privato, Jefferson ha cercato di correggere o modificare la formulazione del suo contributo maggiore. Il fatto che non l’abbia fatto ha destato un profondo sospetto su di lui e sulla sua Dichiarazione nelle generazioni successive di sostenitori della schiavitù e nei loro alleati, che dicono che la dichiarazione non è che un branco di «menzogne auto-evidenti», una serie di «generalità scintillanti», e cioè non è che un rimprovero permanente alla loro causa barbara.

In effetti, fu Jefferson, più di ogni altro americano, a stabilire lo standard per il quale lo giudichiamo oggi così carente, lo standard universale che Martin Luther King Jr. ha invocato quando ha citato Jefferson sui gradini del Lincoln Memorial. Lincoln, nel frattempo, aveva messo in guardia affermando che coloro che avrebbero dimenticato Jefferson sarebbero stati «l’avanguardia – i minatori e gli artificieri – del ritorno al dispotismo».

La statua a City Hall, realizzata dal grande scultore francese David d’Angers, onora Jefferson specificatamente per la Dichiarazione, così come per il suo impegno nel preservare la libertà religiosa. Ripensando all’osservazione di Lincoln, mi è parso quindi particolarmente bizzarro ripudiare Jefferson e la sua Dichiarazione proprio nel momento in cui autoritarismo e dispotismo sono in ascesa. Ora più che mai i più vulnerabili tra noi dipendono dallo standard egualitario di Jefferson contro i veri minatori e artificieri.

Statura simbolica

Preparando la mia dichiarazione per l’udienza, ho anche ricordato il mio defunto padre Elias Wilentz. A metà degli anni Settanta prese parte alla commissione d’arte di New York, la commissione precedente all’attuale commissione di Public Design. Egli prese molto sul serio l’incarico di amministratore dell’arte pubblica della città. Cosa significherebbe, in effetti, rimuovere un’opera d’arte pubblica per una ricollocazione  a tempo indeterminato in un’istituzione privata che fa pagare un biglietto per l’ammissione?

Non mi ci è voluto molto per immaginare cosa Eli avrebbe pensato: sarebbe rimasto sconvolto e avrebbe fatto bene. E se da una parte la New York Historical Society farà certamente un ottimo lavoro per presentare la statua ai suoi ospiti, lo scopo di collocare originariamente la statua nel municipio era di darle una statura simbolica, una che non potrebbe mai avere se collocata altrove.

La commissione, come ci si poteva aspettare, ha votato all’unanimità la rimozione della statua dalla sala del consiglio. La cassa per l’imballaggio, tuttavia, non sarà riempita subito. Il presidente della commissione di Public design, Signe Nielsen, ha valutato che la commissione avrebbe dovuto fare molta attenzione prima di passare un’opera d’arte pubblica di proprietà della città a un’istituzione privata. Il gruppo ha deciso di mettere da parte la consegna della statua alla Historical Society e di pensare ad altre soluzioni.

Non si sa ancora come andrà a finire. Durante l’incontro è stato suggerito che la statua, di circa due metri, potrebbe essere portata alla New York Public Library, vicino a una esposizione della “bella copia” della Dichiarazione della biblioteca. Io preferirei che rimanesse da qualche parte a City Hall, dove è stata per quasi duecento anni, come simbolo dei valori democratici cari ai newyorkesi. Anche se non è possibile onorare Jefferson senza una seria qualificazione, forse l’attuale lotta almeno ricorderà a tutti perché non è un disonore farlo.

Il testo è estratto dalla testata online PersuasionTraduzione a cura di Monica Fava.

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