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La droga degli chef si chiama stella Michelin. Qualcuno ritiene che sia una medicina. Ma i benefici a medio e lungo termine sono piuttosto incerti, perché gli incassi, se aumentano, non coprono le spese che lo status di “stellato” impone come contrappasso alla gloria.

In compenso, i sintomi da sballo coincidono sinistramente con gli effetti collaterali: crisi di pianto, insonnia, enuresi notturna, disturbo da panico, secchezza delle fauci, tremore, irritabilità, ansia, pelo sullo stomaco.

Può sembrare un paradosso, ma la maggior parte dei cuochi d’alto bordo ambisce a questa consacrazione (e al suo eventuale indotto) più che a una sala piena di clienti. 

In nessun altro campo della umana creatività si vive in così diretta e ossessiva dipendenza da un riconoscimento pubblico.

Corsa a premi

Tre anni fa, avendo finalmente appuntato la terza stella sul fiero petto, lo chef marchigiano Mauro Uliassi dichiarò candidamente di aver immolato la sua intera vita professionale al solo scopo di conquistare il magico triplete. «Se non avessi conquistato la terza, avrei mollato tutto».

Nemmeno tra le pieghe più effimere e commerciali della musica leggera abbiamo udito ultimatum altrettanto stringenti. Nemmeno il Toto Cutugno dei tempi migliori, quando era eterno secondo al Festivàl, si sarebbe sognato di minacciare: «Se non vinco Sanremo quest’anno, smetto di cantare!». Peccato, perché in quel caso gli avremmo espresso la nostra gratitudine.

Inutile cercar di spiegare che la cucina non è una gara podistica. Che è un mestiere. E se per caso diventa arte, non va vissuta come una corsa a premi. Parole al vento.

Gli imperatori delle cucine, quelli che stanno ai vertici della catena sociale, trascurano la loro missione, inseguendo compulsivamente stelle, medaglie al valore o glorie televisive. I cuochi che remano ai piani più bassi, se non sognano di emulare un bel giorno i colleghi famosi, macinano sbobbe per pura routine, come si sfoglia una rivista dal barbiere. Nel mezzo, una vastissima anagrafe di professionisti senza certezze, sballottati nel mare di insegne che sorgono e si inabissano in poche pagine di calendario.

Chi, come me, fa il mestiere del critico gastronomico dovrebbe provare qualche imbarazzo nel muovere i propri passi in un contesto psicologico così fragile. Perché a noi spetta teoricamente l’arduo compito di elaborare giudizi a esclusivo beneficio dei lettori, senza che ci sfiori il timore di amareggiare qualche virtuoso del mestolo. E scrivo “teoricamente”, dato che, nella realtà, il lettore è l’ultimo dei pensieri al vaglio delle nostre coscienze.

Misurazioni

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Personalmente, aborro coppe, targhe e premietti per le ragioni che vi illustrerò tra qualche riga. Ma prima parliamo di voti, che sono spesso chiamato ad apporre in calce alle recensioni. Mi adeguo per spirito di servizio e per adesione al fascino indiscreto delle pubbliche pagelle. Tuttavia, percepisco razionalmente i limiti di queste misurazioni. La verità è che non si può usare lo stesso metro per soppesare il rendimento di ristoranti con ambizioni, cilindrate e calibri diversi.

Facciamo un esempio. Se, per dire, assegno un 7 alla cucina dello chef stellatissimo Turi Mori della Lapide di Casal Mottugno Novarese – ristorante dal quale non si esce senza aver mollato 350 euro a cranio – significa che l’ho sostanzialmente bocciato. Ma lo stesso 7 rappresenta una promozione piena, se mi riferisco ai piatti della Trattoria di Licia la Lercia, nel suburbio di Budolone Calabro. Ciò non significa, ovviamente, che Licia cucini meglio del super-chef. Il fatto è che si esprimono in categorie differenti e imparagonabili, come nella boxe.
Oppure, immaginiamo che sala e servizio dello chefstar mi appaiano ineleganti e in debito di comfort. Deluso, potrei timbrare un 6,5. Ma, allora, a Licia che ha il perlinato alle pareti e un ex giovane di sala che ciabatta impacchettato da cinquant’anni nello stesso gilet color zerbino, cosa devo dare? Meno uno?

In definitiva, c’è un carico di legittime aspettative, determinato dal conto e dal lignaggio dell’insegna, che è parte integrante del vaglio, ma non è esprimibile attraverso una rigida classificazione numerica.

D’altra parte, bisogna fare i conti anche con l’accezione corrente di queste valutazioni. Voi scegliereste di spendere una serata in un ristorante che ha un 6 in pagella? La sufficienza risicata alla quale si aggrappa uno studente svogliato non basterebbe a promuovere e consigliare un ristorante. Un 6, in questo campo, ha il sapore di una stroncatura.
E, per contro, cosa vi attendete da un cuoco che abbia preso un 9? Bocconi paradisiaci, virtuosismi ineguagliabili, magie divine e assolute che non ho mai incontrato nella mia trentennale carriera, fatta di miserie e nobiltà, parziali e umane.

Per ovviare a questi squilibri, anni fa, studiai e perfezionai un sistema di valutazione che tenesse conto del coefficiente di difficoltà, come nelle gare dei tuffi olimpici. Si trattava di un ingranaggio cervellotico, con sottrazioni, addizioni, parentesi quadre e graffe. Per scegliere dove andare a cena, il lettore avrebbe dovuto applicare la successione di Fibonacci o chiedere consulenza al Caf. Mi fu consigliato con una certa energia di rinunciare al progetto.

Semplificazioni

Nasce da considerazioni di questo tenore, suppongo, l’idea di trasformare i voti numerici in innocui simbolini, che avessero la facoltà di depotenziare l’impatto della votazione, rendendola più soffusa, astratta, declinante verso un confortevole infantilismo. Le guide si riempirono di stelline, forchette, canguretti, cappelloni da cuoco, trancetti di pizzettina.

Ma anche questa semplificazione si portava in dote evidenti limiti di leggibilità e d’interpretazione.

Ecco perché, nel corso degli anni, il nutrito arsenale di pagelle e pagelline è andato quasi in estinzione, lasciando spazio al magico mondo dei premi. Ardui da contestare, facili da abbinare a qualche utile sponsor, pressoché invisibili agli occhi dei consumatori.

Il problema è che per inscenare una premiazione, occorre un alibi. Serve, insomma, il retroterra di una guida che, a questo punto, non avrà altra funzione concreta. È un gioco delle parti che resta confinato nelle due ore di una spossante cerimonia. Uomini e donne in processione (pochissime donne, perché in questo settore vige un maschilismo medioevale), volti trafitti dall’emozione, sorrisi allegri come le vetrine di un ortopedico.   

Più numerosi sono i premi in lista, più affollata è la platea degli sponsor, che vanno accoppiati in assonanza merceologica. Non basta più designare il miglior chef o il miglior maître. Occorre fantasia.

“A consegnare la coppa per la miglior tovaglia in flanella è l’amministratore delegato delle Telerie Martufoni di Caproglio”. 

“Il premio per la toilette più confortevole è patrocinato dai Sanitari Bortolòn di Biasuzzo de Sopra!”.

E qui, si ritorna alla favola della Michelin, che s’è inventata una stella verde intonata a fumosissimi criteri di sostenibilità al solo scopo di auto promuovere una nuova linea di pneumatici green. 

La morale? Non se ne esce. Che siano voti, simboli o benemerenze la sostanza non cambia. La critica gastronomica in Italia è un muro di gomme.

P.s.

Si avvisa il gentile lettore che Turi Mori della Lapide di Casal Mottugno Novarese e Licia la Lercia sono frutto della fantasia dello scrivente. Eventuali riferimenti a cuochi e cuoche realmente esistenti è puramente casuale.


Ricetta bucatini all’Amatriciana 

di Antonello Colonna, una stella Michelin al suo Antonello Colonna Resort & Spa a Labico (Rm), ma da sempre perplesso dal sistema. «La cucina non è come lo sport. E quindi la stella non sai mai come la prendi, come la perdi, è uno stillicidio, una forzata attesa».

No aglio, no cipolla, no olio. E il guanciale? Mai croccante.

Ingredienti:

• 500 gr di bucatini o spaghetti;

• 125 gr di guanciale;

• 7/8 pomodori San Marzano oppure 400 gr di pomodori pelati;

• 100 gr di pecorino grattugiato;

• peperoncino q.b.;

• vino bianco q.b.;

• sale q.b.

Procedimento

Per prima cosa, si mette a bollire l’acqua (abbondante e salata) e nel frattempo si prepara il sugo seguendo passo passo le indicazioni che seguono.

Tagliare il guanciale a pezzetti e metterlo in un tegame, far rosolare, o meglio far “sudare” e poi farlo sfumare con il vino.

Togliere quindi i pezzi di guanciale dal tegame e metterli da parte, evitando così di farli diventare secchi e salati.

Tagliare a questo punto i pomodori a filetti, privarli dei semi e della buccia, porli nel tegame precedentemente usato per far sudare il guanciale e lasciar cuocere per qualche minuto aggiungendo il sale e il peperoncino, possibilmente fresco.

Non appena il sugo sarà ristretto, si aggiunge il guanciale tolto precedentemente e, mescolando per bene, si lascia andare per qualche minuto.

ALESSANDRO SCIPIONI

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