Ricorre l’anniversario triste dei Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola fascista, voluti dal governo di Benito Mussolini, firmati dal re Vittorio Emanuele III e datati 5 settembre 1938. Essi rappresentano, assieme ai Provvedimenti per la difesa della razza italiana del 17 novembre seguente, il grosso delle leggi razziste del fascismo, che si composero anche di molti provvedimenti minori, tante «punture di spillo sul corpo del perseguitato», come li definì Arturo Carlo Jemolo. Anche se, più che punture, furono vere e proprie coltellate inferte a una parte della popolazione.

Bambini, ragazzi e insegnanti ebrei furono espulsi da scuole e università, alla vigilia dell’inizio dell’anno scolastico, colpevoli, secondo il regime fascista, di non essere di «razza» italiana. Si tratta senza dubbio di una delle pagine più vergognose della nostra storia nazionale.

Tra le riflessioni che nel corso degli anni si sono susseguite sull’importanza della memoria delle leggi del 1938 e sull’antisemitismo, non è stato ancora messo a fuoco un aspetto che invece merita attenzione: il fascismo presentò le leggi razziste come una legittima difesa.

Per i fascisti bisognava difendere la “razza” italiana da mescolanze pericolose con altre “razze” considerate inferiori. Non a caso, la principale rivista per la propaganda di regime sul tema fu chiamata La Difesa della razza mentre i due più importanti decreti del 1938, già ricordati, recavano entrambi nel titolo la parola “difesa”.

Decreto Lessona

Già nel 1937 con il decreto Lessona – la prima legge razzista del fascismo – erano state imposte limitazioni ai rapporti tra italiani e africani nelle colonie, ritenendo che il meticciato ponesse «pericoli gravissimi per la sanità e per la integrità della razza». Presentando quel decreto, la stampa di regime spiegò che esso si basava sulla «necessità inderogabile di garantire la difesa della razza dalle promiscuità». Il razzismo era presentato come una difesa non soltanto legittima, ma necessaria.

Nel 1938 fece il suo funereo ingresso nella legislazione italiana l’antico stereotipo della pericolosità ebraica, diffuso in Europa da molti secoli. L’idea che il “giudaismo” fosse una patologia capace di contagiare anche i non ebrei e di indebolire la società, era comune agli antisemiti di ogni orientamento, religioso e laico. Il giornalista tedesco Wilhelm Marr, il primo a usare il termine antisemitismo, fondò nel settembre 1879 una “Lega degli antisemiti” e insistette sulla pericolosità degli ebrei. Il gesuita Raffaele Ballerini, alla fine dell’Ottocento, riteneva che la nascita di leghe antisemite fosse una reazione inevitabile per far fronte all’«invasione degl’israeliti» e definiva l’antisemitismo «il riflesso naturale assolutamente necessario della prepotenza dei giudei».

Legittimare l’antisemitismo

I nazisti usarono lo schema della legittima difesa per legittimare l’antisemitismo: nella loro visione della Germania, in cui erano centrali l’ereditarietà e il sangue, antisemitismo e razzismo erano tenuti assieme da un complessivo discorso di difesa della “razza ariana”. La “legge del sangue”, a cui i nazisti s’ispiravano, imponeva il riconoscimento di una gerarchia razziale e l’assoluta separazione tra “razze superiori” e “razze inferiori”. Con l’avvicinamento ideologico al nazismo dopo la guerra d’Etiopia, il fascismo s’incamminò sulla stessa strada per preservare la presunta purezza razziale degli italiani, che Mussolini giunse a definire «ariani di tipo mediterraneo».

I travestimenti del razzismo non furono certo una prerogativa dei cupi anni Trenta del Novecento. Nel corso della storia, spesso, la discriminazione e l’odio verso l’altro da sé hanno indossato la maschera della legittima difesa. L’idea di doversi difendere è ricorrente nei processi di marginalizzazione e di colpevolizzazione d’interi gruppi sociali o etnici. È, ancora oggi, lo schema della xenofobia, che presenta l’ostilità verso gli “stranieri” – i migranti, non certo i turisti – come una difesa necessaria: sono troppi, attentano ai nostri valori, minano la nostra identità, riportano da noi malattie che avevamo debellato o ne portano di sconosciute.

Così, in un’autorappresentazione assolutoria, si è contro gli altri non per razzismo, ma per l’esigenza di difendere sé stessi e quelli del “proprio” popolo.

Il mito dell’invasione

Quando trent’anni fa arrivarono sulle coste pugliesi i profughi albanesi, ci fu chi parlò di «malattie innominabili» che viaggiavano sulle barche assieme a loro: quelle malattie non esistevano, ma l’opinione pubblica fu scossa da allarmi e paure. Si era nel 1991 e nasceva il mito dell’invasione dei migranti.

Oggi la paura domina spesso il dibattito pubblico. L’esplosione demografica africana e l’aumento dei viaggi dei migranti nel Mediterraneo per raggiungere l’Europa, le guerre e l’instabilità del medio oriente e, per ultima, la tragedia dell’Afghanistan, fanno temere l’invasione e molti pensano che occorra difendersi.

Le vicende dell’immigrazione di oggi non c’entrano molto con quel che accadde nel 1938, sono storie del tutto differenti, se non per un aspetto: colui che è considerato “altro” da sé viene colpevolizzato e additato come pericoloso, ieri come oggi. Ciò provoca divisione e marginalizzazione e prepara la strada alla violenza. La difesa, così, diventa un attacco preventivo.

L’ipotesi che nei prossimi anni si avranno aumenti consistenti dei flussi migratori verso l’Europa è molto concreta. Di fronte ai tanti “stranieri” che busseranno alle nostre porte si ragioni sulle possibilità o meno che abbiamo di accogliere. Si lavori per creare canali legali d’ingresso e si governino le migrazioni con realismo. Ma si eviti l’ipocrisia di mascherare la xenofobia da legittima difesa. Tante vicende del Novecento, compresa la pagina buia della storia d’Italia di cui oggi facciamo memoria, le leggi del 1938, ci dicono che quel tipo di difesa è in realtà sempre illegittima.

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