Di questi tempi, l’anno scorso, per le vie del centro di Alba ci si prendeva a gomitate. A metà della strada principale, via Maestra, si veniva presi a schiaffi dalle vampate di tartufo bianco dei due negozi storici, con le campane di vetro alzate e abbassate di continuo per il rito collettivo dell’annusamento.

Che quest’anno ci sembra la più sozza delle eresie: toccare in mille mani lo stesso pomello, maneggiare il tuber magnatum pico senza sfregarlo col gel, appoggiarlo al naso privo di mascherina, passarlo a un altro fedele non congiunto che non rispetta il distanziamento – ed è disposto a spendere tremila euro al chilo, pur di grattarlo su un uovo all’occhio di bue.

La gente faceva di buon grado la fila, per entrare nel Palatartufo e portarsi via un etto di gioia. Toccava scandagliare le mappe di Booking per trovare un letto, alla ricerca di una disdetta dell’ultimo secondo, oppure ripiegare su una stanza in condivisione a trenta chilometri dal centro, verso Asti.

La Fiera invisibile

A metà di questa settimana, è finita la novantesima Fiera del tartufo. Solo che nessuno se n’è accorto: perché ci hanno provato, a tenerla viva, ma poi il decreto di fine ottobre ha staccato la spina: chiuse enoteche, ristoranti, il Palatartufo, i confini regionali e pure quelli comunali. E allora, arrivederci e grazie anche ai pochi turisti, rigorosamente italiani, che avevano tenuto fede allo spirito di farsi una gita di soddisfazione del palato nelle Langhe.

Neanche il governatore Cirio, albese doc nonché contagiato della prima ora post aperitivo romano con Zingaretti, se l’è sentita di provare a combattere una battaglia persa. Il budget residuo per la pubblicità, l’ente lo ha investito per lanciare una meritoria quanto aleatoria food and wine digital experience, che forse si celava dietro l’idioma di Albione nel tentativo di nascondere un po’ di pudore sabaudo: mangiare e bere in compagnia via cavo, o col wi-fi, non si può.

Il kit in vendita per riprodurre in casa il pranzo a base di tartufo, col guanto affettatore e le tovagliette griffate, era il meglio che si potesse fare, stanti le restrizioni. Ma ha il sapore del volere e non potere. L’aria di Alba è tornata indietro di settant’anni: un paesone della provincia profonda, sperduto e avviluppato dalla nebbia.

Per strada, la solita gente che si vede da sempre; i vicoli semivuoti, quelli calcati da Beppe Fenoglio quando usciva dal liceo e tornava a casa in piazza del Duomo, sopra la macelleria del padre, o raggiungeva l’ufficio dell’azienda vinicola dentro cui nascondeva il suo talento spropositato, scrivendo i primi racconti della Resistenza sul retro della carta intestata. A due passi dal suo caffè prediletto, il Savona, c’è una libreria che si chiama Milton, in onore del partigiano di Una questione privata.

Durante la stretta della zona rossa il libraio, Carlo, pubblicava i consigli per gli acquisti su Facebook e Instagram e poi faceva le consegne in bicicletta. Un bell’esempio di fusione tra analogico e digitale. Prima che cadesse la scure della chiusura totale anche prima delle 18, uno chef brillante e ingegnoso come Maurilio Garola, titolare di uno storico ristorante stellato in Langa e di un’osteria il cui nome è comprensibile solo agli autoctoni – Campa Mac, Mettine ancora – si era reinventato la colazione dei bisnonni.

Quelli che partivano di notte col bue, dal loro cascinale, per andare a venderselo il mattino dopo, al mercato delle bestie di Carrù. Il menu? Da brividi, per chi non ha confidenza con la cultura piemontese: bollito misto di bue grasso con salse, brodo bollente e bicchiere di vino rosso. Alle sei del mattino. Un successone, finché si è potuto fare. E adesso chi se lo mangia, il bianco d’Alba? Non è un vino da invecchiamento, è un fungo ipogeo: a dieci giorni dalla raccolta, puoi buttarlo nel cassonetto. Parlare di freezer è come nominare Belzebù a messa: congelato e sbrinato, diventa una pallina di gomma.

Antonio Degiacomi, presidente del centro nazionale studi tartufo, temporeggia: «Mah, per ora il mercato tiene. Duecentocinquanta, trecento euro l’etto. Finora ce n’è meno del previsto, l’annata scarsa ha compensato un po’ l’azzeramento del consumo fresco in loco. Negli Usa e in Asia si spedisce qualcosa, però…».

Però manca il business vero: la consumazione fresca di turisti stranieri col portafoglio gonfio, a trenta euro la grattata.

Roberta Ceretto, anima della terza generazione di produttori che hanno reso celebre l’arneis e, in piazza Duomo, detengono l’omonimo ristorante tristellato in società con lo chef Enrico Crippa, ha smaltito le prime scorte trasformandolo in «un gadget per tenere contatti con i clienti migliori e alcuni artisti, nostri amici lontani. Ho spedito almeno dieci tartufi da 150 grammi con un magnum di barolo. Uno è finito a Francesco Clemente, a New York».

Come quando il sindaco dell’Alba che fu, Giacomo Morra, spediva l’oro delle Langhe a Winston Churchill e a Marilyn Monroe, perché aveva capito che poteva costruirci intorno molto più che una sagra di paese con la mostra dei trattori e la giostra per i bambini, ma il racconto di un sogno gastronomico planetario.

Crescita da Land tedesco

Ora: Cuneo e provincia rimangono, dalla terra della malora fenogliana che era, uno dei posti d’Italia in cui si sta meglio. Con un export da 8 miliardi e la disoccupazione compressa al 4,8 per cento, l’economia marcia come il più potente propulsore da Pil di un Land tedesco.

Nonostante alcune pennellate di puro italianismo deteriore: infrastrutture antidiluviane, linee ferroviarie risibili, un’autostrada tra Cuneo e Asti finanziata per la prima volta nel 1998 e mai terminata. Pure con l’ospedale, si è fatta la figura dei cioccolatai (non i Ferrero, che ad Alba sono una religione): per inaugurarlo è servito il Covid, a quasi trent’anni dall’acquisto dei terreni e dopo quindici di lavori mollati e ripresi in un ping-pong estenuante.

Quello che è mancato, qui, ce lo hanno messo privatamente i cervelli e le braccia del posto. Solo che, col mondo inchiodato dal Covid, anche i guardiani dell’eccellenza enogastronomica hanno iniziato a scambiarsi sguardi di preoccupazione.

Roberta Ceretto la mette così: «Chi, come noi, ha puntato su ristoranti, enoteche e non sulla grande distribuzione, ovviamente ha visto una contrazione degli affari. Nel nostro caso, intorno al 20 per cento. L’online, in Italia, per il vino non è ancora sviluppato come altrove. Durante la pandemia, ci sono nazioni che hanno reagito investendo molto in vini costosi, come i nostri barolo e barbaresco: Svizzera, UK, Canada, Hong Kong. Altri, in maniera inaspettata, si sono chiusi a riccio e, invece delle grandi bottiglie, hanno iniziato a comprare vini da buon prezzo, compresi gli Stati Uniti e la Germania».

Se altrove, come nelle terre del prosecco, la chiusura dei posti da aperitivo e il divieto di stato di celebrare il Natale in libertà hanno prosciugato la fonte principale di reddito per lo smercio di mezzo miliardo di bottiglie di vino da festa, qui c’è un problema in parte diverso. La Coldiretti di Cuneo si lecca le ferite: «Il settore è già penalizzato dalla chiusura del canale di hotel, ristoranti e caffè e dalla mancanza di turisti stranieri che apprezzavano particolarmente i nostri vini. Le perdite sono arrivate al 70-80 per cento».

Ma Alba è anche la mamma geografica di un’eccellenza assoluta, il barolo. Un prodotto di lusso e di nicchia: per assicurarsi un ettaro di vigna di nebbiolo da barolo, oggi, devi presentarti con due milioni di euro, altrimenti manco ti aprono la porta. Difatti, gli ultimi passaggi di mano sono intestati non al contadino confinante ma a fondi speculativi internazionali.

Al prezzo dell’aranciata

Tutto bene, quindi? Non proprio. Perché, nel bel mezzo della serrata del gusto, si è piazzata una querelle mica da ridere. Qualcuno si è accorto – ma a ben vedere non è una novità, succede già da qualche anno – che la Gdo, la grande distribuzione, mette sugli scaffali il re dei vini a meno di dieci euro la bottiglia.

Un po’ come se, a zonzo per le corsie dell’ipermercato, si trovasse un Patek Philippe a 99 euro. O uno champagne al prezzo dell’aranciata. Possibile? E se è così come lo si spiega, al consumatore, che è barolo quello che mette nel carrello, ed è egualmente barolo quello che costa caro come il fuoco in un negozio di Alba – o al ristorante, quando si potrà tornare a mangiare fuori?

Il perché lo spiega Matteo Ascheri, che presiede il consorzio di tutela: su 14 milioni di bottiglie di barolo oggi sul mercato, «due terzi sono vendute nei supermercati, a volte anche i discount. Le aziende imbottigliano una piccola parte, il resto lo vendono sfuso ai grandi imbottigliatori». Che fanno il loro lavoro: grandi quantità, pochissimo margine.

Ma così si rovina il mercato di un vino passato dalle stalle alle stelle, un vino che i nonni regalavano al forestiero lombardo e svizzero in mezzo a sei bottiglie di dolcetto, diventato nel tempo il simbolo di un territorio. Di più, quasi il senso di un pellegrinaggio per gli appassionati, come una degustazione di Cristal di Louis Roederer, o la visita alla vigna del Romanée-Conti in Borgogna.

«Ho proposto la riserva vendemmiale», commenta Ascheri. Per i non iniziati, vuol dire mettere via il 10 per cento delle bottiglie, che continuano ad aumentare, ed evitare di inondare il mercato per tenere su i prezzi. L’iniziativa è andata ai voti: 70 favorevoli, 163 contrari.

Chi non ha un’etichetta da vendere, ma lucra sul prodotto sfuso, fa spallucce: perché i cuneesi non sono solo lavoratori infaticabili, ma anche un po’ testùn. Che è il nome di un ottimo formaggio locale, ma anche un termine dialettale che individua un atteggiamento che, a Roma, si traduce con esse de coccio.

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