La scorsa settimana sono andato a un matrimonio: un matrimonio vero, in puro stile 2019, col ristorante e la pista da ballo, le cravatte e i tacchi, la cortesia e l’ampio parcheggio. Tutto agosto a vituperare i clienti di Briatore e a settembre scopri che sei uno di loro: è l’unica lezione che ho imparato dalla pandemia. Sono andato a un matrimonio durante una emergenza sanitaria perché voglio bene agli sposi, perché era stato rimandato più volte del referendum anti casta, e perché l’ho celebrato io. Il dramma della mia generazione non è la fine dello stato sociale o il logoramento della democrazia via TikTok, è aver guardato troppe serie americane. Per cui adesso non solo ci tocca andare ai matrimoni, dobbiamo pure celebrarli.

Mentre celebravo il matrimonio pensavo alla condizione umana, alle conseguenze dell’amore, alla coppia come rivincita sulla morte: insomma pensavo a Temptation Island, la cui prima puntata aveva offerto un ritratto così nero del rapporto tra i sessi da superare in mostruosità i più gloriosi registi di commedie all’italiana. Maria De Filippi è il nuovo Pietro Germi, ma più crudele perché non ci dà nemmeno la consolazione della satira progressista.

Temptation Island è una terapia di coppia in pubblico, cioè uno sputtanamento totale, cioè un viaggio nei sentimenti, come recita ufficialmente il format: format che edulcora le parole (la regia silenzia persino “palle” e “cesso”) per meglio brutalizzarci coi fatti, come in certe scene di Salò. Sei coppie vengono divise per tre settimane: i due gruppi vivranno ciascuno con dodici single che potrebbero fargli dimenticare gli affetti stabili. Ogni mercoledì assistiamo al dramma di chi ha voluto mettere alla prova il rapporto, salvo poi trasecolare quando l’altra persona sembra entusiasta della separazione. Con la lucidità dei fondatori di Azione e Italia viva, i protagonisti di Temptation Island sembrano capire sempre troppo tardi che il dubbio del disprezzo fa meno male della certezza.

Il Neoproletariato

Le coppie di Temptation sono espressione perfetta di quello che Tommaso Labranca definiva Neoproletariato: uomini e donne affrancati dall’ideologia e dal bisogno materiale, votati al culto delle tre F: Fitness, Fiction e Fashion (la quarta F, almeno per la metà di loro, la intuite da soli). Uomini e donne attraenti per lo standard della tv generalista, che vanno insieme a farsi spinzettare le sopracciglia e in palestra, e che iniziano l’avventura televisiva con toccanti raccomandazioni: «Io te sfónno», Carlotta minaccia il fidanzato Nello. Il quale, finalmente solo, complimenta i seni rifatti di una single e poi le chiede languido: «Mi impari il brianzolo e l’empatia?». Carlotta svela di essersi rifatta le tette per Nello, ma a lei i complimenti non glieli ha mai fatti (forse per questo vuole imparare l’empatia).

Carlotta e Nello sono Rossella e Rhett in confronto a Speranza e Alberto: non vogliono sposarsi né convivere né riprodursi ma dopo sedici anni devono capire se vale la pena andare avanti (in sedici anni potevano diventare Sartre e la de Beauvoir, ma evidentemente sarà risolutiva l’analisi della Marcuzzi). È un dilemma invero lancinante, soprattutto alla luce delle parole di Alberto: «Facciamo una vita di merda, l’unica cosa che abbiamo in comune è la crociera». Labranca, da qualche parte, ha come sempre l'ultima parola.

Speranza e Alberto sono Spencer Tracy e Katharine Hepburn in confronto a Gennaro e Anna: due chiattilli, i pariolini di Napoli (Walter Siti sostiene giustamente che senza napoletani non si potrebbe fare tv popolare in Italia, per questo Temptation ha più sottotitoli di Gomorra), che affrontano l’ultimo dei tabù: i soldi. Lui non la porta a mangiare la pizza perché dice che non può permetterselo, ma poi rivela: «Io non le dico quanto ho in banca perché quella mi spella». Anna, invece di chiamare la Finanza, commenta con l’espressione preferita dalle lettrici di Selvaggia Lucarelli quando credono di aver offeso l’avversario: «Gennaro non ha contenuti».

Un caso umano

Anna e Gennaro sono Beyoncé e Jay-Z in confronto a Serena e Davide: la coppia che ha fatto fremere di sdegno la truppa dei cancelletti che quella sera non aveva un controfestival intersezionale e inclusivo dove andare. Perché Davide le ha tolto i social, non le permette di andare in palestra né a ballare né di indossare abiti sexy e le rinfaccia che «non c’è stato un significativo “ci vediamo tra 21 giorni”» al momento del commiato, e insomma «Serena è mia, controllo la sua mente». Apriti cielo. Tutti hanno dato del mostro a Davide, quasi nessuno ha fatto notare che Serena – mentre si strusciava due corteggiatori e sfilava orgogliosa in perizoma – lo ha definito «un caso umano» e lo guardava come si guarda il cugino scemo più che il fidanzato violento.

Tutte queste coppie disastrose, più le altre, al momento stanno ancora insieme. Perché per loro è inconcepibile stare da sole, non dare o pretendere spiegazioni, non ricattare o essere ricattate. Perché per loro il fidanzamento è come la mafia: una volta che sei dentro, sei dentro. A Temptation Island l’amore non è contemplato: si sta insieme perché tutti sentono che gli è dovuto, perché qualcuno deve farsi carico dei nostri bisogni, perché ci spetta anche se chiaramente non possediamo i requisiti adatti.

Temptation Island non è un viaggio nei sentimenti, è un viaggio nell’assistenzialismo italiano. È quasi un anno che si discute ovunque dell’amore ai tempi del Covid: a Temptation Island, finalmente, si discute dell’amore ai tempi del reddito di cittadinanza.

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