Nel film La vita agra di Carlo Lizzani, trasposizione cinematografica del romanzo omonimo di Luciano Bianciardi, il protagonista Luciano Bianchi non parla toscano. Così come aveva fatto davvero nella vita il suo creatore, l’eroe nel libro lasciava la natìa Grosseto per andare a lavorare a Milano, capitale industriale e culturale di quell’inizio di anni Sessanta, di quel principio di boom.

Nel film il Luciano Bianchi va anche lui a Milano, partendo però dalla più nordica Guastalla, in Emilia Romagna. Il motivo principale della deviazione deve essere stato dettato dal fatto che, dato che l’attore che la produzione aveva scelto era Ugo Tognazzi, di conseguenza, e abbastanza comprensibilmente, gli sceneggiatori devono aver deciso che il protagonista dovesse essere settentrionale.

È buffo perché più avanti nella sua carriera, Tognazzi il toscano lo avrebbe pure interpretato, e bene, nella saga di Amici miei; lì il suo personaggio, il notevole Conte Mascetti, è fiorentino puro: aristocratico fino alla stronzaggine, ma in fondo decadente, decaduto, disperato.

Comunque, per il film La vita agra si optò per quello che secondo qualcuno Tognazzi trasmetteva alla gente: ovvero l’incarnazione di una forma per certi versi più vaga, sfumata e ambigua di italiano medio di quella rappresentata dai suoi colleghi illustri della commedia all’italiana: Gassman, Sordi e Manfredi. Tutti e tre per l’appunto più scolpiti, e definiti, ad esempio anche soltanto nella loro romanità. Tognazzi venne forse scelto perché fuggevole, sfuggente alle facili definizioni, moderno come solo certe città moderne del Nord Italia sapevano essere all’inizio degli anni Sessanta.

Il romanzo-avanti di Bianciardi

Moderna era all’epoca la storia di Bianciardi, moderno era già il suo romanzo: così moderno da essere avanti rispetto al contesto. Avanti è Milano, rispetto all’Italia del sole e del mare, con la sua nebbia e il suo grigio, avanti perché è lì il lavoro nuovo, post-industriale, è lì il terziario, la cultura, lì sono le case editrici e la pubblicità.

Avanti è il romanzo che racconta la crisi personale di un rivoluzionario che vuole cambiare il mondo facendo saltare in aria il grattacielo dell’azienda responsabile della morte di cinquanta minatori, e che invece l’unica cosa che riesce a cambiare è se stesso, finendo da ribelle a integrato nel sistema.

Avanti era il romanzo che raccontava di questa integrazione, mettendo in luce certe oscurità della apparente smagliante facciata del boom: «attenzione», sembrava ammonire questo romanzo-avanti, «attenzione, che stiamo guadagnando in benessere ma perdendo la dignità».

Luciano Bianchi che rinuncia all’atto rivoluzionario, rinnegando ideali anarco-socialisti, trovandosi persino un nuovo amore (ipocritamente senza nemmeno il coraggio di rompere con la moglie), diventando in ultimo uomo di successo nell’ingranaggio del lavoro culturale, è avanti in quanto antieroe. È simbolo di una visione critica del mondo.

Forse i produttori del film capirono questo essere avanti – pericolosamente avanti – del romanzo di Bianciardi; ed è magari per questo motivo che non cercarono un regista qualsiasi ma si rivolsero a Lizzani, che era comunista, impegnato, e che almeno fino ad allora aveva girato non proprio commedie, ma drammi storici o sociali come Achtung! Banditi!, Il processo di Verona, Cronache di poveri amanti.

Dato il curriculum, Lizzani si trova dunque a doversi lanciare in un’avventura insolita e molto difficile per lui. Dovrà modellare argilla nuova, prendere il romanzo-avanti, e smussarne i toni di critica sociale, rendendolo commedia, complice la partecipazione di un asso popolare come Tognazzi. Insomma: commedia dovette essere, e commedia fu.

È infatti vero che per certi versi rispetto al romanzo certi toni corrosivi vennero smussati. Infatti i critici dell’epoca non presero bene lo smussamento: distrussero Lizzani e il film, definendolo «né carne e né pesce», troppo distante dai toni di denuncia al sistema che erano la forza del libro, e allo stesso tempo non abbastanza “comico” in quanto commedia, non abbastanza divertente, non abbastanza “per tutti”.

Cineforum a tema Tognazzi

Un po’ spinto dalla ricorrenza del trentennale dalla morte, in questi giorni di clausura nella zona rossa, mi sono organizzato un cineforum casalingo a tema Tognazzi. Il primo film di questo arrangiato ciclo è stato proprio La vita agra di Lizzani. L’ultima volta che l’avevo visto (sarà stato una ventina di anni fa) non mi era dispiaciuto ma ricordo bene di essere stato, da amante del romanzo di Bianciardi, per tutto il tempo della visione a contare le differenze fra il girato e lo scritto.

È un errore comune ma che non bisognerebbe mai fare. I libri tendono a vincere sulle trasposizioni cinematografiche, se stai lì a guardare le differenze. La visione dell’altroieri mi ha invece profondamente colpito e il voto che darei oggi è molto diverso da quello di allora.

Granchi se ne prendono sempre con facilità nella vita, li hanno presi i critici all’epoca (comincio a diffidare seriamente dei recensori di ogni tempo: ho letto che i critici italiani distrussero persino La strada di Fellini, perché troppo “fatato”, troppo poco neorealista), e ho quindi il diritto di prenderne qualcuno anche io. Ma per fortuna a volte ci si ravvede. Oggi il film di Lizzani mi è parso meraviglioso, su più fronti.

La prima cosa che mi è saltata all’occhio è quanto anche lui fosse assai probabilmente avanti, seppure in maniera quasi subliminale; eppure così avanti da non essere capito dal pubblico e dalla critica. Il racconto filmico è infatti volutamente disomogeneo, mescola stili diversi: ci sono il fermo immagine, le velocizzazioni da comica del muto, il protagonista che si fa narratore e guarda in macchina lo spettatore, ci sono l’alternanza fra piani sequenza e montaggio serrato, le citazioni (persino quelle del cinema di fantascienza, nelle sequenze del primo colloquio al “Torracchione”), c’è l’uso inconsueto della colonna sonora, che addirittura trascina la canzone e il suo cantante, Enzo Jannacci, dentro la messa in scena, e scaraventa noi che guardiamo, di conseguenza, nel mondo della surrealtà.

Poi c’è il casting perfetto, e ci sono gli attori, fantastici: Giovanna Ralli bellissima e con un’acconciatura anch’essa avanti. E poi c’è lui, Tognazzi. L’ho trovato più perfetto che mai nel dare una voce (anche tradendo la voce toscana originale del romanzo, ma chi se ne frega), e soprattutto un volto e un corpo a questo benedetto “uomo italiano moderno” o “avanti”, di cui ho già parlato sopra.

Così come la materia del film, Tognazzi è perfetto perché anche lui è un pastiche, la sua recitazione espone e sovrappone toni che spaziano dal comico puro al drammatico senza mai rischiare la schizofrenia espressiva. È meravigliosamente medio, Tognazzi, con quel corpo, quella faccia, quella statura, quelle battute, quel cappotto nella nebbia.

Il film funziona più oggi che allora proprio perché si capisce oggi meglio di allora quanto Tognazzi fosse giusto. Giusto a rappresentare la trasformazione dell’uomo da alto erogatore di ideali a medio-basso incassatore di input esterni; quelli di una società nuova: il libero mercato, i consumi, la macchina e il frigorifero per tutti.

Questa transustanziazione dell’Uomo degli Alti Ideali in Uomo Medio era difficile da accettare allora (la geniale invenzione del ragionier Fantozzi arriverà più di dieci anni dopo), perché sia il romanzo che il film, in modi diversi, facevano delle operazioni troppo a caldo. La trasformazione è più comprensibile adesso, adesso che la medietà si è così estremizzata da arrivare a spappolare la figura degli uomini, e a creare non più neanche medi, ma degli uomini-vuoto, dei buchi di antimateria.

Com’è lontana l’epoca dell’Uomo degli Alti Ideali che sogna di mettere la bomba alla torre simbolo del sistema ingiusto. E com’è lontana ormai anche soltanto l’epoca dell’uomo medio che rinuncia alla bomba e si integra. L’Uomo Vuoto non ha più torri da bombardare, perché non ci sono più ingiusti padroni (si sono smaterializzati come tutto), e non ci sono padroni perché al loro posto ci sono informi azionisti.

Pure i “torracchioni” sono spariti, sostituiti da celle, salette meeting e uffici confortevoli che società dedicate dai nomi dal suono rilassante affittano a giovani imprenditori che non possono permettersi di comprare o affittare un palazzo intero in centro. Che poi, anche se non fossero spariti, i torracchioni, gruppi di turisti verrebbero di certo a farcisi un selfie sotto, come succede in piazza Gae Aulenti o ai grattacieli del Bosco Verticale qui a Milano.

Il mondo è cambiato, l’uomo pure, ma non abbiamo ancora trovato un nuovo Tognazzi a dargli un volto preciso.

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