Il presidente della Triennale di Milano, Stefano Boeri, racconta il senso profondo dell’Esposizione. Il titolo è formidabile: “Unknown Unknowns”, incognite sconosciute  che interrogano il futuro.

L’idea è il titolo: il titolo è formidabile, “Unknown Unknowns”.

È di Rumsfeld, eh... lo sai?

Che devi fare, a volte le cose parlano da sole.

Sì, sì. Il titolo è 70-80 per cento. Non c’è dubbio. Poi, in realtà sono tutte cose diversissime, sono 7/8 mostre, siamo sui tre-quattrocento autori. E alla fine una Triennale deve far questo, deve provvedere a fare in modo che tutte le cose siano belle. Il filo conduttore, se c’è, lasciato a quello che il visitatore percepisce. Diciamo che il titolo è un titolo bello largo...

Ma quali sono le zone nelle quali ti sei immerso più volentieri?

Guarda, è chiaro che c’è un rapporto con Broken Nature (la precedente Triennale curata da Paola Antonelli, nda), perché era un po’ una mostra di soluzioni, no? La natura è stata danneggiata ed ecco come riparare parzialmente il danno. Questa è una mostra di domande e di dubbi, non ce ne sono di soluzioni. E anche qui, c’è chi le cerca guardando il cielo. Non so, tutto il lavoro che ha fatto Joseph Grima sullo spazio, sull’universo, diciamo, è pazzesco. Poi c’è chi le guarda, come ha fatto la Fondation Cartier, invece, cercando di guardare la terra, da Lynch a Pelechian, il suo lavoro è pazzesco… Hervé Chandrès ha fatto infatti un lavoro un po’ opposto, controcampo. Ha fatto lavorare soprattutto artisti che lavoravano sulla realtà, su quello che succede. La chiama una mostra un po’ sulla meteorologia, basata sulle percezioni ordinarie della vita quotidiana, non c’è nessun volo pindarico. Al piano terra, poi, Marco Sammicheli ha fatto una cosa interessante, secondo me: ha ricostruito un po’ la stessa periodizzazione del museo del Design, cioè dal 1950 ad oggi, guardando però tutti gli irregolari, cioè non coloro che hanno costruito la storia tradizionale del design ma tutte e tutti quelli che han lavorato più sui dubbi che sulle risposte, in tema con il resto.

La questione è: in occasione del centenario delle Triennali di Milano, essendo la prima del 1923, rimane tanto futuro ancora lì dentro, no?

Sì assolutamente. È verissimo: guardando gli archivi di Triennale c’è un mucchio di futuro, perché c’è un mucchio di passato nascosto che noi abbiamo rimosso completamente.

È come se si facesse maledettamente fatica a uscire fuori da 20 anni veramente incredibili di pensiero italiano proiettivo, all’incirca dal 1960 al 1980?

Tu stai dicendo che tutto sommato quello che stiamo facendo è lavorare sul passato.

È difficile batterlo.

Sì, è difficile batterlo. È verissimo. Assolutamente. Quando tu vedi quel filmato in cui ci sono Alessandro Mendini e Ettore Sottsass e quelle foto di Santi Caleca, quelle che in cui si baciano e li’ capisci che lì c’è una rottura a un certo punto: Mendini va da una parte e Ettore Sottsass va dall’altra. È incredibile. Vedi la statura delle persone che c’erano, e voglio dire, non è che non ci siano quelle persone lì, però sembra un mondo pazzesco…

E quindi è stata una ricerca terrificante, questa del futuro che c’è qui dentro in mostra, o si tratta finalmente di aprirsi ad altre discipline allargando le braccia, sapendo che non è più nel progetto la questione. È nella scienza, per dirla grossolanamente?

Ma assolutamente sì. Chi sta spingendo sono altre discipline che si interrogano sul senso dell’antropologia. È dappertutto. Alla fine è diventata una disciplina un po’ egemone: non fai nulla se non c’è un antropologo, quasi più dei virologi, per dire. Io sono curioso di capire quanto la gente vorrà capire di queste corrispondenze, quanto sarà percepito, no? È una Triennale che ha ritmi diversi. Per esempio, Formafantasma per la mostra della Fondation Cartier hanno fatto secondo me un bellissimo lavoro, hanno dilatato un po’ tutto, lo spazio è diventato un unico spazio, han tolto tutti i muri e ci sono questi fuochi/focus, no? Mentre invece la cosa di Grima è molto più densa, è piena di cose. Così come quella sul design, è costruita come per famiglie, per gruppi… anche la parte finale sulla musica è bellissima, è un colpo pazzesco! Il Corridoio Rosso curato da Giovanni Agosti è fantastico, è perturbante: è lo stesso tema – lo sconosciuto- guardato dentro una dimensione domestica. In fondo questa incertezza l’abbiamo sempre vissuta e sta entrando nelle vite familiari di ciascuno di noi… Questa è la nostra vita, comunque.

Alla fine è la tua prima Triennale, l’altra l’avevi solo supervisionata. Sei contento di ‘sta qua?

Sì, io penso di sì… io penso sempre a una trilogia, ’19-’22-’25, quindi sto riflettendo già a cosa potrebbe essere la prossima…

Già?! Sei oltre?

Eh sì!

Non ci hai messo la città, qua dentro. Non ne puoi più.

Certo. “Città” è un termine talmente generico che non sai più come utilizzarlo. Lo dice anche Rem (Koolhass). Sto persino pensando di portare qui la sua mostra sulla campagna, “Countryside: The Future, che – essendo stata aperta al Guggenheim di New York nel 2020 sotto Covid– in fondo non ha visto nessuno. Anche in questo caso, il titolo ti dice tutto.

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