«Un colpo netto di spada mi decapiterà come un fiore di primavera raccolto per diletto dal padrone del giardino. Siamo tutti fiori che crescono nella terra e vengono raccolti da Dio: qualcuno prima, più tardi altri. Qualcuno è una rosa cremisi, un altro un lillà virginale e un altro ancora è l’umile violetta. Proviamo dunque a dare gioia, con il profumo e con i colori che ci sono concessi, al sovrano Signore e Maestro». Così scriveva il 20 gennaio 1861 san Théophane Vénard, missionario francese in Vietnam, nell’ultima lettera al padre a pochi giorni dal martirio.

Il testo integrale in francese, trascritto in bella calligrafia su un foglio, è appeso a una parete della sede milanese di viale Lombardia della galleria Massimo De Carlo, che ospita la mostra dell’artista vietnamita naturalizzato danese Danh Vo.

Si tratta, per stessa ammissione dell’artista che ha alle spalle tre partecipazioni alla Biennale di Venezia e mostre nelle maggiori istituzioni del mondo, dal Guggenheim di New York al Reina Sofia di Madrid, dell’opera che meglio sintetizza i termini della sua poetica e che lui ama esporre a ogni mostra. «Se avessi potuto fare una sola opera in tutta la mia carriera, avrei fatto questa» mi dice.

Il “disegno”

Il Vietnam è l’unico paese asiatico che durante il dominio francese è passato all’utilizzo dell’alfabeto latino. Il padre dell’artista, fuggito con la famiglia dal paese nel 1979 e approdato in Danimarca, quando Dahn aveva solo quattro anni, non aveva mai utilizzato la sua abilità calligrafica se non per qualche cartello da esporre nei propri negozi di alimentari.

L’uomo, oggi settantaduenne, non ha mai imparato il danese, né nessun’altra lingua occidentale. L’opera, realizzata per la prima volta nel 2009, prevede che il padre di Danh Vo, Phung Vo, copi in bella scrittura la lettera di san Vénard pur non essendo in grado di capire che cosa ci sia scritto.

In questo senso, spiega l’artista, è di fatto un disegno e non un testo. Il “disegno”, a penna blu su un foglio A4, viene ripetuto ogni volta che un collezionista lo richiede. «Finora ne abbiamo realizzati quasi duemila. Non si tratta di un’edizione – ogni foglio ha un prezzo fisso: 300 euro – ma è un’unica opera che si concluderà con la morte di mio padre».

E non a caso la datazione dell’opera intitolata 2.2.1861 è 2009–ongoing. Continua Vo: «Parla di come la lingua viaggia, ritorna e muta. Il riferimento è al fatto che chi scrive non sa leggere e che il testo è anche un’immagine. È un’opera che riflette su come il potere violento possa ritornare ciclicamente nella storia di un paese. Ma parla anche della distanza tra il produttore e l’osservatore, quella tra il lettore francese di oggi e l’autore dell’Ottocento e infine quella tra me e mio padre».

L’uso della pietra

È una riflessione sulla differenza tra gli esseri umani, ma anche sulla loro possibilità di essere connessi. E ancora, è un affondo sul significato del lavoro, della fatica della manualità, della precisione del calligrafo.

Questo foglio detta l’atmosfera a tutto l’intervento che l’artista ha realizzato negli spazi della casa Corbellini-Wassermann, progettati da Piero Portaluppi nel 1934, sede della galleria. Vo entra in dialogo con i marmi e il parquet dell’ex appartamento, utilizzando degli scarti di marmo che si è procurato da un produttore di Bolzano.

La pietra viene usata dall’artista, insieme a legno dolce, morse di ferro e frammenti di sculture antiche, per realizzare istallazioni che, a detta di Vo, giocano con il concetto di “incastro”. I frammenti di sculture antiche poggiano sul marmo che, a sua volta, poggia sul legno.

L’idea è quella di creare un piedistallo per la scultura, ma l’opera è il dialogo tra i due tipi di pietra. «È il tentativo di guardare le opere del passato in modo diverso, attraverso la chiave del tempo e altri elementi che sono intervenuti sul materiale, compresa la mano dell’uomo» spiega. E aggiunge: «Il punto è osservare i diversi tipi di bellezza della pietra, ciò che le è accaduto: il taglio della macchina, lo scalpello che la scolpisce o il tempo che la leviga».

Crocifissi senza braccia

L’opera più suggestiva in mostra, che l’artista ha concepito come un’unica istallazione realizzata in loco, è a mio avviso quella il cui basamento è formato da una sorta di panchina di granito sale e pepe, sul quale sono appoggiati “a incastro” un frammento di scultura che assomiglia a una decorazione a piede di leone e un volto di Cristo in bronzo.

I due elementi sono sorretti da piccoli sostegni in legno dolce. Il volto di Cristo non si riconosce se non abbassandosi con lo sguardo a livello della panchina.

L’utilizzo di crocifissi senza braccia, statue di madonne medievali o frammenti di sculture romane è frequente nei lavori di Vo.

La loro ricontestualizzazione e risignificazione assomiglia a quella che i primi artisti cristiani operavano a loro volta con miti, festività, edifici del mondo romano. Nel loro piccolo, le eleganti ed equilibrate composizioni dell’artista vietnamita partecipano dello stesso linguaggio del Pantheon di Roma, dove l’imponenza del tempio pagano diventa celebrazione del culto mariano.

Per Vo non si tratta affatto di arte antica: «Questi pezzi non appartengono al passato. Sono oggetti in cui ci imbattiamo ancora oggi. E molti di quelli che scelgo comunicano il senso della distruzione operata dal tempo».

Con la stessa logica, alla Biennale di Venezia del 2013 portò la cornice originale del Caravaggio trafugato a Palermo nel 1969. «Era come una cicatrice. Aveva a che fare con l’idea di frammento». In un certo senso, anche le parole di san Vénard, il missionario francese, vengono utilizzate allo stesso modo.

Il rapporto con la chiesa

Il rapporto di Vo con la chiesa cattolica non è lineare. Negli anni Sessanta suo padre si era convertito segretamente dal confucianesimo al cattolicesimo per protestare silenziosamente contro l’assassinio nel 1963 del presidente cattolico del Vietnam del Sud, Ngo Dinh Diem. Da ragazzo l’artista è stato educato alla religione dei genitori e mi racconta di essere andato a messa tutte le domeniche fino ai 18 anni quando, odiando farlo, smise definitivamente: «Mi sono liberato di un trauma».

Uno dei suoi grandi punti di riferimento è l’artista cubano Félix Gonzalez-Torres, di cui nel 2010 ha curato a Bruxelles una mostra nel contesto del progetto Specific Objects Without Specific Form. Di lui dice: «Mi ha insegnato ad abbracciare le contraddizioni. Lavorava per opposizioni. Riusciva a rendere pubblico un fatto privato, mostrando i cuscini del suo letto su un cartellone, e riusciva a toccare la dimensione privata di un fatto pubblico, come la piaga dell’Aids».

Far convivere gli opposti, mostrare le contraddizioni resta uno degli obiettivi dell’arte di Vo perché, spiega, «è la vita che è fatta così». L’arte, dice, deve avere a che fare con ciò in cui si crede, «e io credo nelle contraddizioni delle cose. Noi impariamo che c’è sempre un significato nella vita, ma le cose vanno spesso nella direzione opposta, contraddicendolo. E questi due fenomeni convivono. Per me è importante fare i conti con questo paradosso».

I nomi della natura

Negli ultimi cinque anni, dopo una parentesi a Città del Messico, Vo ha aperto uno studio a Stechlin, un villaggio in campagna a un’ora e mezzo da Berlino. L’edificio è circondato da un grande appezzamento di terreno che sta trasformando in un grande giardino. L’artista si è accorto di non conoscere il nome delle piante, dei fiori e degli uccelli che vedeva. «Ho pensato fosse sbagliato», racconta: «Così ho deciso che fosse giunto il momento di impararli».

All’inizio, non conoscendo bene il tedesco, ha provato a battezzare le piante con denominazioni inventate. Poi ha deciso di usare i nomi botanici in latino. È così che è nata una nuova serie di opere, presentata per la prima volta nella mostra da De Carlo, in cui le fotografie dei fiori scattate dallo stesso artista vengono presentate in stampe sotto le quali il padre Phung Vo scrive, con la sua calligrafia perfetta, la denominazione latina. «Avere un giardino ti insegna la pazienza. È bello guardare le cose che mutano nel tempo. Le mie mostre vivono per un periodo limitato. Quando si smontano spariscono. Le piante invece continuano a crescere e a cambiare. Il tempo del lockdown mi ha dato l’occasione di accorgermi delle stagioni. Erano dieci anni che, viaggiando in tutto il mondo, non assistevo a questo fenomeno».

Anche questa, come la serie della lettera di san Vénard è un’opera aperta, in continua crescita. Che arriverà un giorno, forse, a battezzare in latino anche la rosa cremisi, il lillà virginale e l’umile violetta.

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