Di fronte di tutto il rumore di questi giorni, la cosa più evidente sia un po’ sfuggita, almeno dalla prima linea dei commenti: pensavamo che i due presidenti fossero lì per un accordo, invece, si direbbe in semiotica, ciascuno era lì con un programma narrativo diverso e determinato: Trump per chiudere un affare economico molto vantaggioso; Zelensky per ristabilire i termini di una narrativa, la versione narrativa della guerra
Ho aspettato qualche giorno prima di trovare qualche pensiero compiuto su ciò che è avvenuto la sera del 28 febbraio nello Studio Ovale, tra Trump e Zelensky. Ho letto, come tutti, molti pareri decisi, come sempre polarizzati: Trump ha teso un agguato a Zelensky; Zelensky se l’è cercata; è stata tutta colpa dell’inglese di Zelensky; Vence doveva guadagnarsi la centralità che in questi mesi gli era stata sottratta da Elon Musk; i commenti sull’abbigliamento sono stati inaccettabili; Zelensky però poteva anche rispettare l’etichetta di una situazione ufficiale. Eccetera eccetera eccetera.
Replay
Oggi ho rivisto tutto di seguito il video dei 50 minuti; molti passaggi li ho guardati diverse volte e, a fronte di tutto il rumore di questi giorni, mi è parso che la cosa più evidente sia un po’ sfuggita, almeno dalla prima linea dei commenti: noi pensavamo che i due presidenti fossero lì per un accordo, invece, si direbbe in semiotica, ciascuno era lì con un programma narrativo diverso e determinato: Trump per chiudere un affare economico molto vantaggioso; Zelensky per ristabilire i termini di una narrativa, la versione narrativa della guerra.
Se non teniamo presente l’aggressione verbale di Trump di pochi giorni prima, quando il presidente americano aveva definito Zelensky un dittatore, il comportamento di Zelensky nello Studio Ovale sembra folle, arrogante, fuori fuoco. Non è questione di inglese (quello ha giocato un ruolo, ma non è il punto).
All’inizio del suo intervento (quello che tutto sommato forse in pochi hanno visto), molto prima dei 10 minuti di scontro finale, Zelensky, appena gli è stata data la parola, ha ringraziato Trump, certo, ma è passato subito a dire che Putin è un killer (usando questa parola). Ha portato delle foto (a un deal sulle terre rare…), evidenza delle violenze subite dagli ucraini. Ha parlato (subito, sempre nei primi minuti) dei bambini ucraini rubati dai russi – uno dei tanti drammi di questo conflitto, di cui non si parla abbastanza, ma che forse in un momento di accordo poteva non essere detto. Molto chiaramente, dunque, Zelensky non era lì per le terre rare; era lì per ristabilire i termini narrativi di questa guerra: c’è un aggressore, che è un killer, ed è Putin; gli ucraini sono stati invasi e sono eroici; chi deve pagare è lui; «le guerre sono sempre andate così nella Storia: chi invade, paga».
Binari diversi
Per un po’ i due interlocutori sono andati avanti su binari argomentativi diversi, senza scontrarsi – ciascuno facendo il suo discorso. E però poi, anche su sollecitazioni dei giornalisti, il punto di incrocio (di scontro…) fra i due percorsi discorsivi è arrivato, inevitabile: non si può dialogare troppo a lungo parlando di cose diverse. Trump – lo dice più volte – vuole chiudere il deal, e continua a ripetere «prima il deal, poi la sicurezza», perché la sicurezza ci sarà; fatto il deal, il resto è scontato, è il 2 per cento del problema. Zelensky dice che la sicurezza con un killer non è scontata, anzi è il punto più problematico, e ricorda a Trump quante volte (25, precisa e ripete) Putin è venuto meno agli accordi presi.
Trump chiede a Zelensky di fidarsi, non di Putin ma di lui (le altre volte, tutte le altre volte in cui gli accordi sono stati traditi, io non c’ero – gli dice); Zelensky continua a dire che non può fidarsi di Putin, come non capisse che dovrebbe fidarsi di Trump-garante. Che Zelensky non abbia capito l’inglese? Che non abbia capito che Trump continua a dirgli «devi fidarti di me»? Difficile. Più probabile che Zelensky continui a insistere sulla non affidabilità di Putin per non dire esplicitamente che non si fida neanche di Trump: vuole garanzie.
A quel punto Vence interviene, e chiede a Zelensky di affidarsi alla diplomazia; Zelensky trasecola e dice quale diplomazia? con la guerra in casa da anni?
E da lì il crescendo è noto. Vence si fa aggressivo; Zelensky sempre più impacciato; Trump perde le staffe. E su cosa le perde? Su un passaggio preciso del discorso di Zelensky, il momento in cui il presidente ucraino dice che si ritroveranno anche loro (americani) in una situazione di difficoltà, se il conflitto continua. Nel momento in cui Zelensky prefigura una difficoltà nel futuro dell’America, nel momento in cui cioè dice «siete come noi, vi succederà quello che succede a tutti», lì Trump perde il controllo, urlandogli che lui non può dirgli cosa gli «mericani faranno, o come staranno: non è nella posizione per dirlo.
Da quel momento, è solo aggressione, degradazione, umiliazione. L’ostinazione auto-controllata con cui i due interlocutori avevano mantenuto fili argomentativi diversi, ciascuno sul proprio binario, è esaurita.
Il turning point
Mi è parso interessante il punto in cui Trump perde le staffe: le pochissime parole di Zelensky sul rischio di crisi per il futuro americano – parole che oggettivamente, a rivedere il video anche cento volte, non sono affatto marcate da Zelensky. Tuttavia sono il fattore-trigger per Trump, perché tutto lì era stato apparecchiato per la sua grande incoronazione: Trump che porta finalmente la pace, Trump che risolve il dramma di due popoli in guerra; Trump che chiude un deal economico fondamentale per gli USA; Trump che riesce laddove il suo predecessore (che senza alcun rispetto istituzionale continua a nominare e offendere) non è stato capace. I giornalisti e le televisioni erano lì per questo, in mondovisione. Non era un momento di photo-opportunity prima della firma a porte chiuse di una trattativa; non doveva essere, probabilmente, neanche il momento di aggressione di Zelensky; era il momento di consacrazione della capacità presidenziale di Trump.
E invece non solo Zelensky ha cercato di spostare il discorso su Putin-il-killer, non solo ha continuato a richiedere garanzie di sicurezza senza affidarsi a Trump, ma addirittura si è permesso di gettare un’ombra sul sogno americano di Trump: America great again. E questo è stato troppo; questo Trump non glielo consente.
La situazione, naturalmente, è tutta a vantaggio di Trump: sono in casa sua (e l’agio, nelle situazioni difficili, conta); sono in tre contro uno (lui, il vicepresidente JD Vance e il segretario di Stato, Marc Rubio, tutti contro Zelensky); i giornalisti sono stati scelti e invitati dallo staff americano, non concordati. Non è una situazione equa; non è una situazione fair; potremmo semplicemente dirci che la situazione non è giusta, perché c’è un problema etico, non solo di etichette conversazionali.
L’ostinazione di Zelensky
Questo svantaggio conversazionale Zelensky non lo aveva calcolato? Ingenuità o ostinazione? Personalmente, tendo a pensare che nell’ostinazione di Zelensky ci siano elementi di impavidità e di disperazione insieme, un mix che lo colloca nel perimetro dell’ostinazione eroica: lui vuole, ad ogni costo, ristabilire la narrativa giusta: Putin killer.
Da padrone di casa, e da padrone dei giochi (la metafora del dare le carte è stato uno dei problemi, lo sappiamo), però, decide Trump quando è ora che lo spettacolo finisca: «Gli americani hanno visto abbastanza», chiude a un certo punto. «E comunque è giusto che gli americani vedano coi loro occhi qual è la situazione», chiosa invocando una disintermediazione che è illusoria (come sempre), essendo stato tutto preparatissimo. Ma lo sappiamo: il fascino del rapporto diretto funziona sempre, nei nostri mala tempora populisti; dire che è bene che i cittadini vedano come i loro presidenti agiscono mentre agiscono illude i cittadini di contare qualcosa, e infatti tutti giù a commentare, a dire la propria, nel tribunale di internet.
«Anyway, “a great piece of television”», dice Trump con soddisfazione in chiusura; in fondo il trionfo in mondovisione l’ha avuto.
«Fired!», urlava un tempo agi esclusi di The Apprentice. Con Zelensky, è andata in fondo allo stesso modo. È pur sempre arrivato alla presidenza da uno show televisivo.
Anna Maria Lorusso, insegna Semiotica della cultura e Analisi dei testi giornalistici presso l’Università di Bologna, ha curato con Marco Santoro il libro ShoWar. La guerra in Ucraina come spettacolo (Donzelli, 2025).
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