Tempo fa scrissi un pezzo per una rivista su quello che ricordiamo e quello che dimentichiamo dei libri che leggiamo, e su come tutto questo ci cambi. Era quello che nel mondo anglosassone chiamano personal essay: un saggio personale in un cui un determinato argomento viene raccontato attraverso l’esperienza individuale e con tecniche ibride, una particolare mescolanza di saggismo e narrativa (ci sono un punto di vista, dei personaggi, un arco narrativo…).

Alla fine del pezzo compariva la mia ragazza, protagonista di un episodio che, così pensavo, colorava tutto il racconto di quella malinconica ironia che mi piace tanto. Prima di mandarlo alla rivista, l’ho fatto leggere alla diretta interessata e lei mi ha imposto di tagliare proprio l’episodio che la riguardava: «Non è mai successo!» mi ha detto. «È vero, l’ho inventato, – le ho risposto stupito, – ma tu ci fai una bella figura». «Proprio per questo devi levarlo».

Emmanuel Carrère ha scritto un libro su Gesù Cristo (Il Regno, Adelphi) facendolo iniziare con duecento pagine di aneddoti su Emmanuel Carrère, permettetemi allora di iniziare un articolo su Carrère con questo ben più modesto episodio personale.

E’ la prima cosa che mi è tornata in mente quando in questi giorni ho scoperto cosa sta succedendo intorno all’ultimo libro dell’autore parigino, intitolato Yoga (in Italia arriverà a primavera del 2021, sempre per Adelphi).

Storia di un fallimento

Yoga è la storia di un fallimento, quello di scrivere un libro, «breve e sorridente», sullo yoga: pagina dopo pagina il progetto si sfalda e quello che il lettore si ritrova tra le mani è un libro né breve né sorridente, anzi uno dei più oscuri e tormentati di Carrère.

Tutto inizia con un ritiro di una settimana di meditazione Vipaśyanā: peccato siano proprio i giorni dell’attentato alla redazione di Charlie Hebdo, e lui e i suoi compagni di meditazione siano le uniche persone di tutta la Francia a non saperlo.

Tra le vittime c’è un amico di Carrère, così i funerali costringeranno lo scrittore a lasciare il ritiro. È la prima di una serie di irruzioni della tragedia e del perturbante. A un certo punto, dopo un episodio non meglio specificato – un’enorme ellissi narrativa «per proteggere le persone a me vicine» dice –, si aggravano gli episodi depressivi che lo portano a un altro tipo di ritiro: il ricovero in una clinica psichiatrica, con il ricorso all’elettroshock.

Quando viene dimesso passa due mesi su un’isola greca a tenere lezioni di scrittura creativa a una classe di profughi insieme a un’accademica statunitense, tale Frederica. Il contatto con la grande, vera tragedia del nostro tempo, e l’inizio forse di un nuovo amore segnano lo scioglimento narrativo e tematico della vicenda. Fine.

Bene, questo è il libro. Ah, no, ancora una cosa: verso la fine del racconto Carrère scrive che alcuni degli episodi raccontati sono stati modificati, un incontro erotico prima del ricovero, il nome e le fattezze di Frederica.

Un’imprevista irruzione della finzione, imprevista per un autore che negli ultimi vent’anni ha costruito il suo successo su libri che spingevano all’identificazione totale autore e narratore, libri che, apparentemente, sembravano dire sempre la verità.

Un ritorno alle origini (Carrère nasce come scrittore di finzione, con grandi romanzi più o meno “tradizionali” come Baffi o La settimana bianca), o un ammiccamento ai giurati del Goncourt per altri. Il più importante premio francese, infatti, premia esclusivamente opere di fantasia, non testimonianze o memoir, motivo per cui i precedenti libri di Carrère non erano stati candidati. Ma il caso di Yoga è diverso e già se ne parlava come il vincitore annunciato di quest’anno.

Effetto divorzio

Martedì 29 settembre, Hélène Devynck, l’ex moglie di Carrère, pubblica sull’edizione francese di Vanity Fair una lettera aperta in cui dichiara che Emmanuel non avrebbe rispettato un accordo legale che gli impediva di pubblicare qualsiasi cosa che la riguardasse senza prima la sua autorizzazione.

«Negli anni in cui abbiamo vissuto insieme, Emmanuel poteva usare le mie parole, le mie idee, affondare nei miei lutti, nei miei dolori, nella mia sessualità: era innamorato e il modo in cui lavorava ai suoi libri mi rassicurava sul fatto che sarei stata rappresentata in un modo che soddisfaceva entrambi» scrive Devynck.

Il divorzio cambia le cose: a marzo firmano un accordo che vincola Carrère a far leggere all’ex moglie quello che scriverà su di lei e a pubblicarlo solo con il suo consenso: è il divorzio «la grande ellissi narrativa», il buco nero mai nominato attorno cui ruota il libro, l’episodio taciuto per la mancata liberatoria dell’ex moglie.

Dopo la firma dell’accordo Carrère le invia una copia di Yoga con una nota: «Sai bene che scrivo libri autobiografici (…) Anche questo libro sarebbe stato incomprensibile senza parlare del contesto».

«Il contesto, in questo caso, ero io», commenta Devynck. Chiede che vengano rimossi alcuni passi, ma né l’autore né l’editore, scrive, lo fanno.

Non è la prima volta che la vita si prende la rivincita su Carrère. Nel 2002 aveva pubblicato su Le Monde un racconto erotico indirizzato proprio alla sua compagna Hélène: sapeva che la donna quel giorno avrebbe preso un treno, e sapeva che era solita leggere il giornale in viaggio, così avrebbe letto insieme a seicentomila persone quella lettera pornografica indirizzata a lei in cui l’autore, il suo compagno, le impartiva degli ordini per darsi piacere.

Quale titanica (e masturbatoria) celebrazione del potere manipolatorio della scrittura (e dell’ego dell’autore)! Una scrittura così potente da provocare orgasmi reali! Peccato che nulla andò come previsto, Hélène perse il treno e fu un disastro imbarazzante, almeno sul piano performativo.

«L’altro motivo, prosegue Devynck nella lettera aperta, per cui non voglio comparire in questo libro è che qui si perde la differenza tra finzione e menzogna. La finzione vuole comunicare una verità. La menzogna vuole nasconderla».

I fatti manipolati sono molti di più di quelli ammessi dall’autore alla fine del libro: i due mesi nel campo profughi sono stati in realtà pochi giorni, la maggior parte trascorsi in compagnia della stessa Devynck e soprattutto prima del ricovero in clinica, e così via.

«I lettori sono liberi di credere, come di dubitare. L’autore è libero di raccontare la sua vita come vuole e come può. Anche io vorrei avere la libertà di non essere presente e di non essere associata a uno spettacolo presentato come sincero ma dove non penso di avere vissuto».

Devynck vuole essere liberata dalle catene pubbliche della scrittura altrui, dall’essere un personaggio manipolato, plasmato, esposto dall’autore ed ex marito.

Il fatto che sia una donna a ribellarsi a questi vincoli, rende il tutto più attuale ma allo stesso tempo universale: come a dire non siamo più solo le vostre muse mute, creta passiva nelle mani del maschio demiurgo.

Linda Boström Knausgård, l’ex moglie dell’altro campione dell’autoficition Karl Ove Knausgård, dopo essere stata personaggio non-protagonista ma di certo centrale nelle migliaia di pagine dei sei volumi de La mia lotta, ne ha scritto 120, tirate e tesissime, intitolate Welcome to America in cui racconta la sua storia in prima persona.

Fame di realtà?

La scrittura si nutre di realtà (Fame di realtà si intitolava un libro manifesto di qualche anno fa sull’autofiction, il personal essay e in generale il rapporto tra realtà e finzione letteraria), succhia come un vampiro dalla vita l’energia che autonomamente non possiede.

Come Dracula, la scrittura è morta e ha bisogno di sangue – magari di una bella fanciulla, come nelle storie di vampiri.

In un certo senso è sempre stato così: quello che adesso sta cambiando è che i soggetti la cui vita deprediamo appaiono nei nostri libri con nome e cognome veri, o comunque riconoscibili, e ci ricordano che, quello tra scrittura e vita, non è uno scambio equo, senza conseguenze.

La vita degli altri non è un ristorante “all you can eat”. Ci sono delle delle ricadute fatte di dolore e rabbia, o magari anche solo di fastidio per la propria individualità violata. Anche se gli facciamo fare “bella figura”.

Sento già le lamentele di chi dirà «Ma allora non si può più scrivere di niente, volete limitare la sacra libertà creativa dell’autore!» Probabilmente sono gli stessi che parlano di dittatura del politicamente corretto.

A parte che il mito della creatività autonoma e svincolata da tutto tranne che dal genio è, appunto, un mito romantico. Ma il punto è la responsabilità. Molte case editrici fanno ricorso alla consulenza di un avvocato prima di pubblicare i testi che coinvolgono «fatti e personaggi realmente accaduti».

Si potrebbe scrivere una Storia della letteratura contemporanea attraverso i disclaimer all’inizio dei romanzi. Quello tra Legge e letteratura, però, è un dialogo difficile, non sempre risolto perché fondamentalmente sono due le lingue che parlano: quella certa del diritto e quella, molto più ambigua e sfumata, della letteratura. Quanto è modificato il racconto rispetto alla realtà? Cambio solo i nomi o anche altri particolari? Le persone coinvolte sono riconoscibili e da chi?

Non è paradossale che in un’epoca come la nostra, fatta di fake news, finissimi reality, storytelling esteso a ogni ambito dell’esistenza, si chieda proprio alla letteratura di essere sincera? Mentre le storie di invenzione sembrano ormai appannaggio delle serie tv, la scrittura letteraria con l’autoficition sembra finalmente liberata dal fardello della trama, del congegno romanzesco, di quella grammatica narrativa per cui un fucile che appare in una scena all’inizio del dramma dovrà per forza sparare.

Perché questo tipo di libro ci piace tanto? Forse perché siamo sempre più abituati ad avere a che fare con personaggi fittizi che si spacciano per veri: li scriviamo ogni giorno sulle nostre bacheche, li facciamo parlare con i nostri tweet.

Sono i nostri avatar social: le nostre opinioni che crediamo così importanti, uniche, sono il nutrimento che ogni secondo affidiamo alla macchina social, il carburante di quella “seconda vita” da cui le industrie tecnologiche estraggono valore e creano ricchezza (per loro).

Forse questi libri ci piacciono perché abbiamo nostalgia della vita. I vampiri delle nostre vite siamo diventati noi stessi.

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