Nel XVI centenario della morte di san Girolamo (30 settembre 420), papa Francesco ha pubblicato una lettera apostolica (Scripturae Sacrae affectus), in cui, a partire dalla parabola di questo dottore della Chiesa, sono offerti preziosi spunti di riflessione, che stimolano uomini e donne del XXI secolo a illuminare, e comprendere, dinamiche di sorprendente attualità. Passato per Treviri, Aquileia, Antiochia, Costantinopoli, Roma, dal 386 Girolamo si ritira a Betlemme, presso la grotta della Natività, dedicandosi allo studio, alla traduzione e al commento della Bibbia, con la medesima pazienza e la medesima sollecitudine, sono le sue parole, delle formiche, perché la ricerca della verità esige simile stile di vita.

E tale ricerca, come egli stesso raccomanda, è indispensabile, quotidianamente, per impedire che le nostre parole siano vane, come quelle di chi, senza ritegno o pudore, parla di ciò che non conosce. È una strada che conviene percorrere confidando nella collaborazione, senza cui «non c’è sviluppo genuinamente e integralmente umano» (così papa Francesco).

La linguistica e l’ermeneutica, la filologia e la poesia sono coltivate da Girolamo per offrirne i frutti come munus amicitiae, come un dono ispirato dall’amore per l’umanità intera. Perché questa, fondamentalmente, di altro non ha bisogno che di essere presa per mano, e invitata, in mezzo ai grandi capovolgimenti di ogni epoca (allora come ora: dal sacco di Roma del 410 alla caduta di Kabul del 2021), a meditare sul misterioso e affascinante rapporto tra il proprio divenire, nel corso dei secoli e dei millenni, e la permanenza di quei valori, quei principi, che, radicati nella nostra natura, ciascuno è chiamato a interpretare e tradurre alla luce delle sollecitazioni, delle provocazioni del presente.

La filologia come dono, come gesto di carità e come metodo pedagogicamente esemplare per stare di fronte alla complessità, e spesso alla conflittualità, che spiccano sulla superficie del mondo: anche in una simile direzione potrebbe essere verificata, oggi, la testimonianza sapienziale di san Girolamo. Da una parte penitente nel deserto, dall’altra concentrato nel suo studio: poiché i due volti della sua esperienza, icasticamente illustrati nella storia dell’arte occidentale, si nutrono reciprocamente, se il deserto libera la ricerca dalle tentazioni dell’orgoglio e dell’ambizione, e lo studio fa del deserto il luogo deputato alla dedizione pura nei confronti della verità.

A Betlemme, in particolare, Girolamo ha colto in maniera profonda e sublime la dialettica per cui brillano, nelle parole e nelle scritture umane, a partire da quelle della Bibbia, la loro intrinseca fragilità e la loro sorprendente potenza. Deperibili per un verso, esposte al rischio del fraintendimento, alla minaccia della consumazione; imprescindibili dall’altro, come strumento di scoperta di sé e di orientamento nel mondo, e di dialogo, di incontro tra l’uomo e l’uomo, tra l’uomo e il divino.

La filologia come passione, che si traduce in sdegno per la menzogna, l’ignoranza, l’approssimazione. L’amore incondizionato per la parola acuisce la consapevolezza della cura e del rispetto con cui deve essere trattata, affinché non divenga mezzo di prevaricazione, di inganno, di violenza, ai danni di sé medesimi e del prossimo. In quest’ottica non sarebbe forse errato identificare in san Girolamo, almeno idealmente, una figura matrice dell’intera cultura occidentale, come questa è nata e si è evoluta attraverso l’incontro tra la classicità greco-latina e la tradizione vetero e neotestamentaria. Ciò che Girolamo ha fatto, nei trentacinque anni del suo soggiorno a Betlemme, tradurre e commentare, per una piena comprensione di ciò che ci è stato “affidato”, è quel che hanno fatto, da Omero in poi, da Isaia in poi, generazioni di scrittori, di maestri, dai quali, fi no a noi, è stata ripetuta la domanda rivolta da Filippo al ministro di Candàce, regina di Etiopia in Atti 8,30: «Capisci quello che leggi?».

I limiti del linguaggio e dunque del mondo

Possiamo oggi assumere Girolamo a modello, non soltanto per ricordare quanto e come la traduzione, l’esegesi erudita e minuziosa siano state il vettore fondamentale per lo sviluppo dell’arte, della poesia, della filosofia (da Aristotele a Dante fino a Ungaretti e oltre), ma anche, e forse soprattutto, per sottolineare la portata politica e morale del suo esempio. Là dove l’ammissione dell’ignoranza, il riconoscimento dell’incompetenza generano un impegno personale, un gesto autenticamente missionario, a vantaggio di tutti.

Quelle parole, «Nessuno mi guida», con cui il funzionario etiope risponde a Filippo, sono la provocazione e lo scandalo che deve raccogliere chiunque abbia responsabilità civili e istituzionali. Perché a questo siamo tenuti, a guidare e a essere guidati, dal momento che la sfida per un accesso democratico alle conoscenze e alle competenze, nelle società del XXI secolo, ha acquisito un’urgenza e una drammaticità inusitate.

Traduciamo come respiriamo, per lo più senza accorgercene. Eppure si tratta di un’operazione indispensabile al nostro stesso vivere, e dal profondo valore etico. La traduzione, infatti, implica e presuppone l’interesse, la fiducia per la parola altrui, e la disponibilità ad accogliere ciò che, di prim’acchito, non capiamo. Essa, per un altro verso, nasce dalla disponibilità a condividere ciò che abbiamo di più caro.

Traduciamo ogni volta che parliamo, tentando di risolvere in discorso idee, emozioni, paure, progetti (…); traduciamo ogni volta che ascoltiamo, sforzandoci di cogliere l’intenzione di chi, coraggiosamente, si rivolge a noi. Come è stato dimostrato da Paul Ricoeur, è un’intera visione della vita che è così messa in gioco: l’impegno di tradurre o no, di capire o no, è determinato dalla nostra capacità o volontà di accoglienza. Dall’ostilità o dall’interesse, dalla paura o dalla curiosità con cui guardiamo gli altri.

Occorre scegliere tra l’apertura, l’estensione, il prolungamento del nostro “io”, del nostro “noi”, virtualmente all’infinito (chi infatti ci è così estraneo da dover essere considerato, nel tempo e/o nello spazio, irriducibilmente straniero, irraggiungibile?), e il culto dei confini, dei muri.

Papa Francesco, rifacendosi a Ludwig Wittgenstein, ha affermato: «I limiti del mio linguaggio sono i limiti del mio mondo». Imparare a leggere, e tradurre, le parole degli altri implica un lungo e duro tirocinio, in cui interagiscono diligenza e capacità di penetrazione. L’effetto, rigenerante, è una dilatazione del cuore e dell’intelligenza, chiamati ad avventurarsi al di fuori della propria comfort zone.

Lungo questo crinale si gioca forse una delle più decisive partite del nostro tempo: nella misura in cui, oggi, a ciascuno è data la possibilità e responsabilità di scegliere quale sia la portata del suo linguaggio, e dunque l’estensione del suo universo. Chi condivide il mio linguaggio? E chi, fratello, sorella, abita allora il mio stesso mondo?

Il procedimento, che è insieme emotivo e intellettuale, logico e sentimentale, in base a cui definiamo il “nostro” linguaggio può terminare subito, a pochi chilometri da casa, oppure essere, potenzialmente, senza fine. Fino a dove, fi no a chi ci sentiamo in dovere di comprendere (di tradurre)? Quel che vale per il lettore, vale a maggior ragione per chi, ogni giorno, si affaccia sull’attuale stato del mondo: entrambi avvertono la barriera della diversità, facendone un ostacolo oppure una sfida. Il plurilinguismo, la poliglottia, se ci teniamo al carisma di san Girolamo, al quale papa Francesco ha richiamato, oltre che la Chiesa, l’umanità intera, dovrebbero essere, innanzi tutto, un’aspirazione ideale, un’esigenza del cuore, propria di chi sa che senza traduzione non c’è incontro, e senza incontro non ci sono verità, pace, giustizia.

Del mondo esperto

Veniamo, per questa via, condotti alla radicale, duplice domanda su cui si apre After Babel di George Steiner, libro uscito per la prima volta nel 1975, e in una versione ampliata e aggiornata nel 1992: «Che cos’è il linguaggio?», e «Perché mai (…) a occhio e croce, più di ventimila lingue su questo piccolo pianeta?». Le due questioni, evidentemente, sono tra loro connesse.

Il linguaggio, in quanto tale, definisce e circoscrive la capacità, la possibilità per ogni essere vivente di percepire il mondo, di ordinarlo e rappresentarlo mediante parole, frasi, concetti. A ogni lingua diversa, dunque, corrisponde una modalità di concettualizzazione differente della realtà, al punto che, come è stato indicato dalla linguistica contemporanea, non si può pensare allo stesso modo in due lingue diverse.

Ogni idioma codifica i fenomeni e le passioni in un modo preciso e caratterizzato. Ma questo prodigioso strumento, cui è saldamente connessa l’immagine che possiamo avere di noi stessi e di quel che ci circonda, estende il suo dominio, le sue forze operative anche in direzione del passato e del futuro: la memoria è racconto, è parola e discorso, né al di fuori del linguaggio sono possibili il sogno, il desiderio, la profezia. Possiamo riconoscere quello che ci sta dinnanzi, e accondiscendere, oppure rifiutarlo, soltanto a parole.

Ma perché, oltre alla nostra, dovremmo aver bisogno delle lingue, delle realtà, dei ricordi e dei sogni degli altri? La ragione è la medesima per la quale ogni giorno, o quasi, usciamo di casa. Apriamo un giornale. Ci fermiamo a fare due chiacchiere con uno sconosciuto. È la medesima, o quasi, per cui l’Ulisse di Inferno XXVI racconta che né l’affetto per il figlio Telemaco, né l’amore per la moglie Penelope «vincer potero dentro a me l’ardore / ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto».
Noi siamo ciechi a ciò che la nostra lingua, e dovremmo aggiungere la nostra cultura e la nostra sensibilità, non contemplano; siamo ciechi a ciò che non è ammissibile, verbalizzabile, con gli strumenti che il nostro idioma materno ci fornisce. È una cecità spaziale, geografi ca, sincronica: non possiamo vedere tutti i colori e le tipologie della neve e del ghiaccio che vede un eschimese, perché non abbiamo le parole per riconoscerli; ed è una cecità diacronica, connessa al mutare della lingua, delle lingue nel tempo.

Quando Dante definisce Beatrice, in un passo scolasticamente celebre, «gentile» e «onesta» noi, letteralmente, non possiamo “vedere” cosa intenda, a meno che si riesca, con un esercizio di filologia, di erudizione antiquaria, a tradurre le due parole, restituendo loro il significato che avevano nella cultura medioevale. Il mutamento delle lingue nello spazio non è diverso dal loro mutamento nel tempo, almeno sul piano pratico degli effetti: crea barriere, favorisce l’incomprensione, limita le nostre possibilità di esperienza della vita.

Ripiegamento o espansione?

Molti poeti del XX e XXI secolo hanno insistito su questo punto: all’origine della volontà di tradurre agisce un sentimento di invidia, o anche di inferiorità, che non si intende lasciar evolvere in rimpianto. Agisce la percezione, dolorosa, di un proprio vuoto o limite esistenziale, a fronte del quale spicca l’affascinante ricchezza, di parole e di avventure, del fratello straniero: quella diversità, quell’alterità, che da un lato ci inquieta e ci respinge, al contempo, come ha dichiarato Vittorio Sereni, oscuramente ci affascina.

Nasce così il desiderio di ascoltare, di leggere, di tradurre: come occasione per fare proprio non solo o tanto ciò che ci sembra affine, ma anche e soprattutto quello che non ci appartiene. Traducendo, la propria sensibilità è obbligata a lasciarsi investire, plasmare e illuminare dalle parole altrui, conseguendone un beneficio, in termini etici e psicologici, che a Cesare Pavese sembrava evidente.

È una questione di ospitalità: possiamo dirci disposti ad ascoltare e interpretare soltanto i fratelli, le sorelle; oppure possiamo sfidare più alte barriere e affrontare ciò che a prima vista ci si presenta come enigma, come mistero. Quanto è forte l’escursione o differenza che nei nostri “incontri”, di lettori e soprattutto di persone, siamo pronti ad affrontare? A che distanza, linguistica e ideologica, da noi stessi possiamo arrivare?

Il coraggio o la disponibilità a «inoltrarsi in un paese sconosciuto» (la formula è di Giovanni Giudici), che ogni traduttore sperimenta, definisce la stoffa della nostra stessa persona: che a ogni passo del vivere, come succede al traduttore, è chiamata a scegliere tra ciò che è essenziale (di sé e dell’altro), e che può o deve essere trattenuto, e ciò che invece deve o può essere cambiato, in una perpetua rimodulazione che definisce lo spessore morale dell’autentica cultura.

L’ignoranza del greco da una parte e quella dell’ebraico dall’altra hanno rappresentato le colonne d’Ercole oltre le quali tutte le letterature europee si sono sforzate di andare, definendo se stesse attraverso il prolungato confronto e dialogo con lo specifico sguardo sull’uomo, sul tempo e sul mondo che le due lingue e culture hanno veicolato. Come indicato da Steiner, «l’estendersi del linguaggio al di sopra del tempo», proprio di Isaia e di ogni scrittura profetica, e la sperimentazione (contraria) delle forme verbali e grammaticali del passato, tipica di Tucidide, hanno contribuito in modo decisivo a definire le coordinate dell’uomo occidentale, teso, dialetticamente, tra l’organizzazione in discorso del ricordo e la verbalizzazione del proprio sogno del futuro.

È il nucleo fondamentale della lezione di san Girolamo, su cui ha insistito anche Gianfranco Folena nel noto saggio Volgarizzare e tradurre (Einaudi, 1991): ogni civiltà si fonda sulla trasmissione di significati, e valori, nel tempo e nello spazio, supponendone la pertinenza e tenuta anche al di fuori del codice linguistico in cui sono stati formulati. Il desiderio di attualizzazione linguistica di idee ed emozioni del passato, che sta all’origine di ogni tentativo di traduzione, libera «una simbiosi (e tensione) fra moderno e antico» che già sant’Agostino riconosceva come ineluttabile per ogni cultura non ripiegata su se stessa, ma in continua espansione.

Si traduce ciò che si riconosce comunque attuale, non fosse che per contestarlo e, attraverso l’assimilazione, giungere a definire la propria voce. L’intelligenza di un linguaggio, prossimo o remoto, diverso dal proprio è la sfida a cui sempre i singoli individui e le civiltà nel loro insieme sono chiamati, qualora non cedano alle opposte tentazioni della mera sudditanza o della semplice indifferenza.

In tal senso la vita stessa di ogni cultura, come Carlo Dionisotti ha dimostrato nelle pagine di Tradizione classica e volgarizzamenti (in Geografia e storia della letteratura italiana, Einaudi, 1967) non è che una dinamica continua di traduzioni, senza la quale, verrebbe da concludere, con le parole del principe Amleto, dentro e fuori di noi non sarebbe che silenzio.

Questo articolo di Uberto Motta è stato pubblicato sul numero 6 della rivista bimestrale Vita e pensiero.

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