Quando vado a dormire ho paura. Ho paura dei pensieri che mi affollano la testa – le cose che dovrei fare, che non ho fatto, che dovrò fare, che non saprò fare, le persone a cui dovrei dedicare più tempo, più amore, gli errori che ho fatto, quelli che sto per fare. Questi pensieri mi aspettano nel buio, sempre.

Appena poggio la testa sul cuscino, appena si spegne la luce, rimaniamo io e me stessa: due persone incompatibili. In quel cono di coatta vicinanza esclusiva, dal buio avanzano strisciando i pensieri che si erano acquattati nel bosco della mia testa in paziente attesa della notte.

I pensieri sanno pazientare. Sono bravissimi in questo (e in molte altre cose). Sanno quando farti credere che va tutto bene, e sanno quando e dove colpirti nel tuo punto debole: la notte, per me, da quando ero bambina. Notte, territorio in cui i pensieri impazzano e sanno fare stragi.

Ma ormai ho quarant’anni e, nonostante i pensieri siano abilissimi nemici, anch’io qualche trucco col tempo l’ho imparato.

Vado a letto. Il mio compagno – che si addormenterà in meno di un secondo – dice già quasi dormiente: “Ti metti il tuo omicidio?”. “Sì”. “Buonanotte”, fa, e poi: “comunque sei pazza”. Lo dice con dolcezza, e un po’ di rassegnazione. E si addormenta.

Io prendo il telefono, lo metto in carica, cerco il mio omicidio di quella notte. Mi metto le cuffie, e non posso dormire senza di lui. Quando parte lui, i pensieri come fossero vampiri davanti a un crocifisso mandano un urlo stridulo, e sono costretti ad arretrare nel bosco. Aspettano il domani, e domani torneranno, certo. Ma adesso possono urlare quanto vogliono: non mi troveranno.

La cronaca nera mi rassicura. Mi rasserena.

Mi risucchia dentro di lei e io sono tutta lì dentro: tutta dentro la rabbia per quell’omicidio, tutta dentro il processo che sto seguendo, tutta compresa a studiare mentalmente gli atti – che poi studierò davvero l’indomani – per cercare di capire se la giustizia ha fatto il suo corso o meno.

“Signora, dov’era lei il 18 dicembre 2001?”, chiede il pm. “Non ricordo”, risponde quella, pure un po’ innervosita. E io penso Non è vero! Di’ la verità! Ti ricordi benissimo e non lo vuoi dire! Oppure: “Dalla testimonianza di tal signore è lampante, senza ombra di dubbio, che la signora tal dei tali fosse presente sulla scena del crimine”. E io penso Non è vero! È innocente! Come fai a dire così, è chiaro che è innocente!

Oppure arriva una condanna all’ergastolo sulla testa di una persona che magari ha commesso un fatto grave, ma non aveva scelta. E io penso Ma non lo vedi che quella persona, se non si fosse difesa, sarebbe morta? Che altra scelta aveva? Aveva davvero un’altra scelta? E queste sono domande a cui non puoi dare una risposta una volta per tutte. Le domande etiche che ti sbatte in faccia ogni processo. E se fossi io, la vittima? E se fossi io, la madre o il padre del colpevole?

Rimango lì, completamente inglobata nel processo come fossi lo scranno del giudice, la sedia del Pm, le luci al neon dell’aula di tribunale.

La scritta LA LEGGE È UGUALE PER TUTTI scolpita dietro il giudice manda lampi nei miei occhi. Rimango lì attonita davanti ai mondi che si spalancano attorno a un evento nero.

Sono lì e penso: non è possibile che sia accaduta una cosa del genere. E allora cerco di capire quel confine indicibile che separa noi da loro: chi ha compiuto un omicidio da chi non l’ha compiuto. Chi ha superato quel limite, insito in ognuno di noi, e chi, come la maggior parte di noi – mi auguro anche io – non lo farà mai.

Non mi sento una spettatrice, non mi sento un giudice. Non mi sento una persona in un letto che assiste a un evento, di notte. Mi sento lì, in quel processo, con tutti i sensi tesi: mi sento non solo la persona che ha commesso il crimine ma anche la madre dell’imputato o della vittima, o perfino la vicina che sì, forse, una volta ha notato qualcosa di strano. O non ha notato niente.

Mentre sono lì e guardo, mi appare palese che un evento nero rivela la realtà, la società, la mentalità del momento storico in cui è accaduto in un modo talmente cristallino che in nessun altro modo potrei conoscere davvero quel momento, quella mentalità, quella realtà. Anche questa, per me, è un’occasione irrinunciabile.

La cronaca nera mi interessa non per il fatto nero in sé, ma perché è il punto preciso in cui l’uomo si rivela. In cui c’è in gioco tutto.

Sei davanti a una giuria per salvarti la vita, per salvare quella di chi ami, o perché un giorno, per caso, un evento imponderabile ti ha sfiorato e tu, anche tu, sei chiamato a consegnare il tuo pezzo del puzzle. Il tuo pezzo di verità. E la verità è incredibilmente sfuggente in un caso di cronaca nera. Potrei quasi dire: non esiste. Lo stesso evento raccontato da punti di vista potenzialmente infiniti ti si palesa lì davanti. E sei tu – anche se sei nel tuo letto – quello chiamato a capire non solo chi mente e chi dice la verità, ma a fare uno sforzo di comprensione per uscire dalla tua testa ed entrare in quella degli altri. Chi ha ucciso. Chi ha capito che stava per morire. E tutti quelli che, come da una mano nera, sono stati anche solo sfiorati dagli effetti di quel crimine. Un evento nero tocca tutti, senza esclusione.

Un evento nero cambia la vita di tutti.

Un evento di cronaca nera è, per me, il paradigma estremo dell’uomo. Chi, almeno una volta nella vita, non ha pensato: “La ucciderei quella persona”? E forse il sentimento di odio era vero, purissimo. Ma non abbiamo mai ucciso davvero. C’è qualcuno che invece l’ha fatto. E qualcun altro che, a un certo punto, ha capito che non aveva scelta: sarebbe morto. Cos’è accaduto nella testa di quelle persone, in quel momento?

Penso che capendo un momento del genere, capiremmo tutto. Penso che siamo tutti potenziali assassini, e tutti potenziali vittime.

Penso che dentro l’attimo nero ci sia tutto il mondo.

E allora perché questo mondo che solo a descriverlo fa paura mi rasserena?

E perché, da un certo punto in poi, ha preso ad affascinare così tanta gente (sono sempre di più i cosiddetti leosiners, per esempio, cioè gli amanti di Franca Leosini, inventrice e autrice di trasmissioni come Ombre sul giallo e Storie maledette, o gli spettatori di documentari e serie true crime)?

Credo abbia a che fare con quell’“oltre ogni ragionevole dubbio” che sancisce non solo la legislazione italiana, ma l’etica di ognuno di noi. L’etica; di più: la sensibilità di ognuno di noi. Sei sicura, Antonella, che oltre ogni ragionevole dubbio in quel processo sia stata trovata la verità? La versione reale delle cose.

Sei sicura, Antonella, di essere diversa da quelle persone?

Sono sicura di no.

Dentro ogni evento di nera ci siamo tutti noi: le nostre grettezze, i nostri odi, le nostre disperazioni, le nostre debolezze, le nostre paure, le nostre perdite, le nostre colpe. Vederle lì, esplose all’ennesima potenza su uno schermo, in un processo, come in Un giorno in pretura di Roberta Petrelluzzi, o negli occhi di una persona condannata per un crimine di cui si professa innocente come nelle interviste di Franca Leosini, o reperendole e stanandole negli atti dei processi: sembra un paradosso, ma sospende anche il mio giudizio su me stessa.

Non sono la persona peggiore del mondo. Non sono la più sfortunata, e nemmeno la più fortunata. Sono parte del genere umano, e se è vero che non siamo mai davvero in salvo, forse è vero anche che non abbiamo mai davvero perso tutto.

Questo mi rasserena. Essere una come tanti.

Non voglio dire che posso capire cosa prova chi ha ucciso o chi ha perso una persona cara. Non puoi capire una cosa del genere se non l’hai vissuta. Non voglio neanche sembrare irrispettosa del dolore – reale – altrui, di quelli che davvero sono dentro quell’evento. Per me dedicarmi a questo mondo nero è dire: io voglio vedere, io voglio cercare di capire, io voglio studiare la realtà non per come ce la impacchettano quando ci raccontano un fatto nero; ma per come posso capirla io. Con l’unica arma che esiste, l’unico metodo che conosco: lo studio.

I miei amici mi chiedono sempre: mi racconti una storia nera? Io la racconto. E mentre la racconto dimentico tutto, dimentico le mie colpe e le mie paure, e anche le mie aspirazioni, le mie ambizioni e i miei amori. Io la racconto e difendo a spada tratta coloro che per me sono innocenti, snocciolando le prove a loro favore come fossi un avvocato, una Pm – anche se so benissimo che non lo sono, so benissimo che le mie sono illazioni di una profana – o accanendomi contro coloro che secondo me sono i veri colpevoli.

E poi c’è sempre un momento in cui, mentre racconto, mi fermo e dico: eppure, c’è un’altra versione della verità. E mi metto a raccontare quell’altra versione, del tutto opposta, che trasforma, per esempio, una condanna in una pena immeritata.

È questo mondo così reale – la pura realtà nera – ma anche così inconoscibile, un mondo che, per capirlo, esige continuamente che dimentichi chi sei e diventi la persona che stai raccontando; è questa possibilità di conoscere ciò che – si spera – non conoscerò mai dal vivo, a iniettarmi una scarica di adrenalina nelle vene.

Raccontami un’altra storia nera. Io te la racconto, ne so tantissime, ne ho studiate tantissime, te la racconto e finalmente, in questo racconto, smetto di essere la ridondante, ripetitiva, noiosa me stessa che conosco da una vita, e trovo un senso. Un’utilità – credo sia la parola giusta.

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