Si può affrontare un mito civile in modo storico-critico, cioè decostruendone la genesi e ricostruendone la storia, senza cedere a facili polemiche e senza perderne la carica ideale? Il libro in questione ci dimostra che questo è possibile e tendenzialmente salutare.

Alessandro Santagata, Toni Rovatti e Giorgio Vecchio, su commissione dell’Istituto Cervi, ma con assoluta autonomia intellettuale, raccontano finalmente la storia della famiglia Cervi, i contadini di Gattatico (RE) entrati nel pantheon della Resistenza nazionale.

Non era un compito facile. Da un lato per la forza dell’immaginario sul tema, costruito, come ci mostra Santagata, su alcuni veri e propri monumenti: la lapide di Calamandrei, il libro I miei sette figli, il film di Puccini. Dall’altro per la relativa scarsità, frammentarietà e dispersione delle fonti documentarie disponibili (di cui il Covid ha anche reso difficile la reperibilità).

Invece i tre storici, che tra l’altro combinano felicemente generi e generazioni, hanno fatto un lavoro serio e scrupoloso, che procedendo in ordine cronologico ci offre un quadro della storia dei Cervi e delle loro diverse e controverse memorie.

Antifascismo esistenziale

Nella prima parte Vecchio si occupa dell’ambiente fisico e della storia familiare, ricostruendone l’albero genealogico e seguendo gli avi di Alcide e Genoeffa nella campagne padane tra un San Martino e l’altro. Importante la documentazione sulla adesione della famiglia all’Azione Cattolica e, nel caso del padre, al Ppi.

Da notare poi il richiamo alle due sorelle, solitamente dimenticate; e lo sforzo di distinguere tra loro i caratteri e le scelte dei sette fratelli, da non intendere come spesso si è fatto, come un blocco unico e indistinto. Ecco allora i 20 anni di distanza dal primo all’ultimo; e di conseguenza le diverse caratteristiche fisiche, i differenti rendimenti scolastici, le varie esperienze di leva.

In quest’ambito si colloca anche l’episodio della detenzione di Aldo a Gaeta, cui la leggenda ricollega il sorgere del suo antifascismo. Vecchio invece ci mostra come i provvedimenti nei suoi confronti non abbiano nessuna motivazione politica, né sia quella una esperienza significativa di politicizzazione.

L’antifascismo dei Cervi è prima di tutto di natura “esistenziale”, cioè deriva dall’accumulazione di motivi quotidiani di scontento e poi di dissenso dal regime, che solo a metà anni Trenta assume una valenza di consapevole opposizione politica. L’incontro e poi l’adesione al Pci vanno ricondotti all’incontro con Didimo Ferrari e la sua biblioteca circolante (poi ascritta interamente ad Aldo Cervi, che ne fu invece solo un collaboratore) e poi con Lucia Sarzi, personaggio chiave, sul quale i lavori di Laura Artioli hanno fatto piena luce.

Molto dettagliata è anche la trattazione di Vecchio sull’impegno agricolo della famiglia: sugli studi tecnici compiuti in autonomia, sulle scelte di conduzione innovative (simboleggiate dal binomio trattore e mappamondo), sul coraggioso passaggio da mezzadri ad affittuari. E sui risultati ottenuti (riconosciuti peraltro dal regime con vari premi).

Il ruolo della guerra

Alle soglie della guerra Vecchio passa il testimone a Rovatti, che ne ricostruisce con dovizia l’impatto sulla famiglia. Da un lato quello sulla vita quotidiana, con le ristrettezze e le conseguenti azioni di diversificazione dell’attività e di costruzione di mercati alternativi a quello ufficiale controllato dal regime (la cui politica degli ammassi assume una forma di vera e propria oppressione economica). Dall’altro quello imposto dal richiamo alle armi, eluso peraltro dalla maggior parte dei fratelli per motivi fisici, ma anche con stratagemmi che rimandano alla saggezza popolare (Ettore però combatte in Jugoslavia).

In entrambi i casi si tratta di forme di “resistenza alla guerra” che preludono e in qualche modo connotano l’impegno politico antifascista che matura poi all’inizio del 1943, ascoltando Radio Milano libertà e discutendo con i Sarzi (Lucia ma anche Otello) e Dante Castellucci; poi dopo il 25 luglio, con la famosa pastasciutta del 27 (ricostruita sulla scia di Marco Cerri); e soprattutto dopo l’8 settembre, quando i Campi Rossi diventano luogo di accoglienza e salvataggio dei ricercati, siano essi soldati sbandati come Quarto Camurri o ex prigionieri russi e alleati.

Rovatti, sull’onda del recente interesse storiografico in tema di prigionieri e di Resistenza internazionale, descrive la natura composita della prima banda Cervi; e ricorda quanto già aveva scoperto Absalom nei documenti alleati, cioè che questo ruolo di salvataggio viene riconosciuto nel dopoguerra con un contributo in denaro da parte della Allied Screening Commission (circa due milioni di lire, corrispondenti a circa 70mila euro attuali).

La stagione partigiana

Il libro ricostruisce poi la breve stagione partigiana dei Cervi, restituendo in termini corretti (cioè rifuggendo sia l’agiografia che la polemica) i rapporti tormentati con il Pci reggiano che li porta a rivolgersi, sempre tramite Lucia, a quello di Parma; e anche il sodalizio con don Pasquino Borghi, altra vittima precoce della repressione fascista.

La delazione legata alla visibilità acquisita dai Cervi sul mercato nero, il vero e proprio attacco ai Campi Rossi, gli interrogatori e il processo farsa vengono ricostruiti nel dettaglio e collegati alla situazione della Rsi, che cerca (inutilmente) nella precoce stretta repressiva una legittimazione sul campo.

La consuetudine di Rovatti con le carte giudiziarie è particolarmente preziosa per smascherare la discrezionalità della “giustizia” fascista e confrontarla con quella di transizione postbellica. Nei processi di collaborazionismo alla Cas di Reggio (studiati brillantemente da Iara Meloni) i Cervi sono una presenza tanto fisica (con la deposizione di Irnes Bigi), che simbolica, nella misura in cui sono in più cause e aleggiano sull’intero procedimento.

Del resto il periodo post 1943 è molto difficile per la famiglia rimasta, oggetto di altre repressioni fasciste, ma anche di atti vandalici nel Dopoguerra.

Nella storiografia

Il saggio di Rovatti è importante anche perché nella prima parte offre una dettagliata rassegna storiografica, che mostra come i Cervi acquisiscano un peso nella prima storiografia nazionale (emblematica l’evoluzione sul punto di Roberto Battaglia) ma poi vengano sostanzialmente relegati a quella regionale, che insiste sulla specificità dell’apporto contadino alla lotta.

La storiografia va però inserita nella costruzione complessiva della memoria dei Cervi, tematizzata qui da Santagata, nella sua dimensione pubblica, sulla scorta dei precedenti lavori di Luciano Casali e Eva Lucenti, ma anche con nuovi e importanti documenti.

Viene ribadita l’importanza di alcuni passaggi postbellici, dai funerali alla consegna delle medaglie, ridando rilievo al ruolo di Arrigo Benedetti nel fissare alcuni punti chiave della narrazione poi divenuta canonica. Viene ricostruito il contesto nazionale di forte contrasto con la Dc, acuito in sede locale dalle violenze sommarie e dall’ostilità anticomunista del vescovo Socche.

Si analizza poi il punto di svolta costituito dal decennale, con i discorsi di Calamandrei e i testi di Calvino che preludono a I sette figli. A proposito del testo del 1955, di cui si ricostruisce la fortuna editoriale e la diffusione guidata dal Pci, Santagata ha il merito di restituire centralità alla figura di Renato Nicolai, giornalista romano sposato a una partigiana reggiana, che è il vero e proprio regista dell’operazione.

Inviato da Roma per animare la politica locale, ancora povera di intellettuali, si inventa il genere della “biografia riflessa” e riesce a trasformare la voce di Alcide in una straordinaria epica moderna. E, sia detto a margine, una operazione simile la ripeterà nel 1960 dopo i fatti di luglio.

Santagata ricorda poi la fortuna di Alcide come icona delle battaglie comuniste degli anni Cinquanta e Sessanta, seguendone i viaggi fino in Russia, e ricordando i crescenti pellegrinaggi civili ai Campi Rossi.

E arriva così al film di Puccini, ricostruendone la tormentata vicenda produttiva e analizzandone la poetica nel contesto del Sessantotto.

La trattazione si arresta sostanzialmente alla morte di Papà Cervi, offrendo però anche utili spunti sul periodo successivo, che andranno senz’altro approfonditi in altra sede.

Nel complesso il volume costituisce la prima ricostruzione scientifica della storia della famiglia Cervi. E rappresenta un utile caso di studio sia sulla Resistenza emiliana, sia sui meccanismi della memoria pubblica postbellica (in questo senso può essere utilmente accostato al libro di Eloisa Betti su Montesole-Marzabotto). Ma lo si può leggere anche come una storia del Novecento italiano (con i suoi nodi città/campagna, guerra/pace, vecchi/giovani), dal punto di vista di una famiglia contadina, cioè per l’Italia di allora sociologicamente normale, prima di essere storicamente eccezionale.


Fratelli Cervi. La storia e la memoria (Viella 2024) è un libro di Toni Rovatti, Alessandro Santagata e Giorgio Vecchio

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