Non ci si aspettava un romanzo epistolare da Virginie Despentes, invece sorprende tutte e tutti, con un romanzo di rabbia e consolazione, di rabbia e accettazione, Caro Stronzo presenta una galleria di ritratti di esseri umani condannati ad armeggiare come meglio possono con le loro ansie, le loro nevrosi, e le loro dipendenze da conflitti di ogni tipo, i loro complessi, le loro vergogne interiori e paure. La corrispondenza fra Rebecca, un’attrice culto degli anni Ottanta, e Oscar, uno scrittore di successo accusato di molestie da parte di Zoe, giovane donna che infiamma la rete attraverso il suo blog, è la testimonianza viva, rude, a tratti violenta dello stato delle relazioni fra uomini e donne in questo mondo ultracontemporaneo.

Virginie Despentes riesce però nella difficile impresa di rendere lo scambio umano quasi tenero restituendo alla società un messaggio di speranza. Il dialogo che avviene via email tra Oscar e Rebecca è una comunicazione fluida, un’intimità nutrita di confidenze che si rafforzeranno con l’arrivo del confinamento dovuto al Covid.

Immersi in un universo in cui Internet ha un profondo impatto nei comportamenti e nelle vite delle persone, questa relazione intangibile produce un legame solidale, di mutuo sostegno per non ricadere nella tentazione di tuffarsi di nuovo nel bar locale a bere o giocare d’azzardo. La dipendenza, la sua celebrazione e le sue estasi, la sua devastazione nel tempo sulla psiche e sul corpo, si afferma come un tema centrale del romanzo.

Beppe Cottafavi


Oscar

Cronache del disastro

Incrociato Rebecca Latté, a Parigi. Riaffiorati alla memoria i personaggi straordinari che ha interpretato, donna di volta in volta pericolosa, nefasta, vulnerabile, toccante o eroica – quante volte me ne sono innamorato, quante foto di lei, in quanti appartamenti, sopra quanti letti, ho potuto appendere e mi hanno fatto sognare. Metafora tragica di un’epoca che va a puttane – questa donna sublime che ha iniziato un’infinità di adolescenti a quello che fu il fascino della seduzione femminile al suo apogeo – oggi ridotta a una cozza simile. Non solo vecchia. Grossa, sciatta, una pelle schifosa, e questo suo personaggio di donna sporca, chiassosa. Il tracollo. Mi hanno detto che si è convertita in musa per giovani femministe. L’internazionale delle pezzenti ha colpito ancora. Livello di sorpresa: zero. Mi metto in posizione fetale sul divano e riascolto Hypnotize di Biggie, in loop.

Rebecca

Caro stronzo,

ho letto quello che hai pubblicato sul mio profilo ig. È come se un piccione mi avesse cacato sulla spalla. Ti insozza, ed è molto sgradevole. Uè uè uè sono una piccola sfigata che non interessa a nessuno e che frigna come un chihuahua perché sogna di essere notata. Gloria ai social: l’hai avuto, il tuo quarto d’ora di gloria. La prova: ti sto scrivendo. Scommetto che hai dei figli. Uno come te si riproduce, immagina se la stirpe finisse. Le persone, ho notato, più sono stupide e sinistramente inutili più si sentono di dover garantire la discendenza. Per cui mi auguro che i tuoi figli schiattino sotto a un camion e che li guardi agonizzare senza poter fare niente e che gli schizzino gli occhi fuori dalle orbite e che le loro grida di dolore ti perseguitino ogni notte. Questo è tutto il bene che ti auguro. E lascia stare Biggie, coglione.

Oscar

Che veemenza. Me la sono cercata. La mia unica scusa è che non pensavo che mi avrebbe letto. O forse sotto sotto lo speravo, ma senza crederci davvero. Mi dispiace. Ho cancellato il post, e i commenti. Detto ciò, che veemenza. Sulle prime sono rimasto scioccato. Dopodiché, devo ammetterlo, mi ha fatto molto ridere. Provo a spiegarmi. Ero seduto a pochi tavoli dal suo in un dehors di rue de Bretagne – non ho osato rivolgerle la parola, ma l’ho guardata con insistenza. Devo essermi sentito umiliato dal fatto che la mia faccia non le ricordasse niente, e anche dalla mia stessa timidezza. Altrimenti non avrei mai scritto delle cose così abiette su di lei. Quello che avrei voluto dirle quel giorno – non so se le ricorderà qualcosa – è che sono il fratello minore di Corinne, eravate amiche negli anni Ottanta. Jayack è uno pseudonimo. Eravamo la famiglia Jocard. Abitavamo sopra i giardinetti Maurice Barrès. Lei, ricordo che era del Cali, il suo palazzo si chiamava Danube. All’epoca a casa nostra ci veniva spesso. Io ero il fratello minore, la spiavo da lontano, con me parlava raramente. Ma la rivedo davanti alla mia pista di automobiline, la sua unica preoccupazione era di insegnarmi a farle deragliare. Aveva una bici verde, una bici da corsa, da maschio. Rubava interi sacchi di dischi alla Hall du Livre e un giorno mi ha regalato Station to Station di David Bowie, perché ne aveva due. Grazie a lei ho ascoltato Bowie a nove anni. Ce l’ho ancora, quel disco. Nel frattempo, sono diventato uno scrittore – pur non avendo raggiunto il suo livello di notorietà, non mi è andata troppo male, e il suo indirizzo mail è un pezzo che ce l’ho. Me l’ero procurato perché volevo scriverle un monologo teatrale. Non ho mai trovato il coraggio di contattarla. Cordialmente.

Rebecca

Ragazzo, tieniti le tue scuse, tieniti il tuo monologo, tieniti tutto: non mi interessa niente di te. Se ti può consolare sono ancora più furiosa nei confronti di quell’infausto cretino che mi ha inviato il link alla tua dichiarazione, come se dovessi essere aggiornata su ogni insulto che mi riguarda. Io della tua misera vita me ne strasbatto. Me ne strasbatto dell’insieme della tua opera. Me ne fotto di tutto quel che ti riguarda, tranne di tua sorella. Certo che mi ricordo di Corinne. Erano anni che non pensavo a lei, ma appena ho letto il suo nome mi è tornato in mente tutto come se aprissi un cassetto. Giocavamo a carte su una slitta che fungeva da tavolinetto in camera sua. Aprivamo le imposte per fumare le sigarette che rubavo a mia madre. Siete stati i primi ad avere un microonde e ci facevamo fondere il formaggio da spalmare sulle fette biscottate. E poi mi ricordo che sono andata a trovarla nei Vosgi – faceva la monitrice in una specie di chalet con dei cavalli. La prima volta che ho messo piede in un bar è stato con lei, abbiamo giocato a flipper facendo le disinvolte, come se ci giocassimo da una vita. Corinne aveva una moto – vista l’età che avevamo doveva essere un motorino truccato. Fumava Dunhill rosse e beveva spremute di limone. Ogni tanto parlava della Germania dell’Est e della politica della Tatcher, roba di cui intorno a me nessuno si preoccupava, all’epoca. Ho detestato Nancy, ci ripenso di rado, e non ho nessuna nostalgia della mia infanzia – mi ha sorpreso che di quella giovinezza mi tornasse in mente qualcosa, e qualcosa di piacevole. 8 Di’ a tua sorella che l’ho cercata su Internet e non ho trovato niente. Immagino che si sia sposata e abbia cambiato cognome. Dalle un bacio da parte mia. Quanto a te, fottiti.

Oscar

Corinne non si è mai aperta un account sui social. Non è tecnofoba, ma è sociopatica. Ricordo quando venivi a casa nostra. Più tardi sei diventata una star del cinema e io non mi capacitavo che la stessa persona potesse essersi seduta nella nostra cucina e avere il suo quarto d’ora agli Oscar. All’epoca la notorietà non era una cosa accessibile a tutti, riguardava pochissime persone. Mi sembrava pazzesco che potesse toccare a qualcuno che veniva dal nostro quartiere. Se non ti avessi conosciuta non so se mi sarei permesso di cercare un editore per il mio primo romanzo.

Eri la prova vivente che in famiglia si sbagliavano: avevo diritto ad avere un sogno. Mi sento proprio un coglione ad aver scritto quelle porcherie su di te. Hai ragione, è stato un modo veramente patetico di attirare la tua attenzione. Tu e mia sorella non eravate nella stessa scuola, non ho idea di come siate diventate amiche.

Quando andavate alle elementari, la vostra attività preferita era costruire case popolari per bambole con degli scatoloni. Era tutta un’impresa e perfino mia madre, che non aveva nessuna disposizione alla creatività, vi lasciava fare senza lamentarsi dello stato in cui riducevate la camera di Corinne. Un mercoledì ti sei presentata con l’imballaggio di un frigo e ci avete impilato delle scatole da scarpe per farci degli appartamenti. Per le Barbie il soffitto era troppo basso, allora

avete tirato fuori le bambole da collezione di mia madre, in bella vista su un ripiano nel salotto. Quando ha scoperto le sue piccole bretoni, sivigliane, alsaziane e quant’altro che ornavano il vostro casermone io mi aspettavo una bella sfuriata. Questo ricordo mi è rimasto impresso perché mia madre non è nemmeno riuscita a far finta di arrabbiarsi. Sui principi aveva preso il sopravvento una specie di gioia. Aveva detto “state esagerando”, ma prima di intimarvi di rimettere le bambole nei loro cilindri di plastica e riordinare la camera si era accovacciata davanti all’installazione scuotendo la testa “ma roba da matti”. Brontolava pro forma, era evidente. Non capitava spesso che la facessimo ridere, noi bambini. Tu avevi sconfitto il suo malumore. In seguito, ogni volta che ti vedeva apparire sul piccolo schermo faceva lo stesso commento “quella volta che con la Coco mi hanno tirato giù tutte le bambole tradizionali dal ripiano per arredarci il loro grattacielo di cartone… una gran faccia tosta, quella ragazzina. E quanto era graziosa, già allora”.

Io manco avevo l’età di giocare a Mille Miglia e già sapevo che eri bella, ma me ne sono pienamente reso conto alla fine di un’estate, qualche giorno prima di tornare a scuola. Sei venuta a casa nostra e appena arrivata hai detto: “Ci facciamo un caffè?”. Da quel giorno, basta bambole. Eri diventata grande. Ed eri irriconoscibile.

© Riproduzione riservata