La casa è povera, come la famiglia che ci abita. Padre e madre sono arrivati dalla Romania venticinque anni fa, i due figli sono italiani, nella lingua il romano e il rumeno si rincorrono in continuazione. Attorno al tavolo i genitori e la figlia più grande. Studia da infermiera. Il padre mi dà questa informazione e poi se l’appunta sul petto, fiero.

Non so perché mi trovo qui. O forse lo so alla perfezione.

Ho scritto un libro su una settimana di Tso, trattamento sanitario obbligatorio, biografico, e da quando è uscito mi cercano in tanti, tantissimi, per offrirmi la loro personale lotta contro la malattia mentale. Non è mai direttamente il malato a volermi incontrare, di solito mi cercano i familiari, soprattutto genitori, quasi sempre per i figli. Come in questo caso. Chi mi contatta vuole parlare, ma non solo, non solo quello.

Vuole qualcos’altro, punta più in alto.

Il caffè dalla moka è bollente. Provo a prendere tra le dita il bicchierino di plastica, ma è impossibile.

“Io sono uno scrittore, e chi scrive non è un taumaturgo”. Anticipo qualsiasi discorso con queste poche parole, sono diventate la premessa d’ufficio, la sigla di inizio programma. Ma loro, padre, madre e figlia, non capiscono. Capita spesso.

“Chi scrive non è un guaritore”.

Capiscono, e ci restano male. Come sempre. Restiamo in silenzio.

“Magari una parola, se ci parla lei con Andrea, magari gli fa bene”. È la figlia che si è lanciata. Sapevo che uno dei tre presto o tardi avrebbe esordito in qualche modo. Di solito è proprio questo che mi chiedono: una parola. Ormai ho sufficiente esperienza per dire che gli esseri umani, quando centrati in pieno dalla disgrazia, funzionano tutti allo stesso modo. Più o meno. Tutti, dai più ricchi ai più poveri, i colti e gli ignoranti, si aggrappano a questa meraviglia di senso e suono: la parola, appunto. Anche un sola. Che avveri non si sa bene quale miracolo. Un istantaneo miglioramento. La parola come una pozione magica.

“Va bene, certo”.

La figlia si alza e sia avvia lungo il corridoio delle stanze, la sento aprire una porta, poi richiudersela alle spalle.

“Tra poco doveva fa’ il concorso da carabiniere”. È il padre ad averlo detto, intanto si tormenta le mani. “Ha fatto tanti lavoretti, ma gli è sempre piaciuta la divisa”.

Mentre parla il padre, io mi perdo negli occhi di turchese della madre. Quando si ammala un figlio, nelle madri scende sul viso un’ombra, specie nello sguardo, talmente nera da oscurare qualsiasi traccia di vitalità. Non parliamo della gioia.

“Poi inizia a sta’ male, un giorno stava al centro commerciale nòvo, quello sulla Laurentina, senza motivo inizia a mena’ gli amici, a fa’ il pazzo”.

Intanto i figli non arrivano. Anche questo fa parte del pacchetto base.

Di solito, l’iniziativa dei genitori, o dei fratelli, o di chiunque, ai malati che incontro non fa piacere per niente. Perché devono vedere uno sconosciuto? Uno che nemmeno è un medico? Perché?

Finalmente arrivano. E la faccia del ragazzo, il malato, non fa nulla per nascondere il fastidio per tutta la situazione. Mi si mette seduto di fronte. Mi pianta negli occhi i suoi, color turchese, identici a quelli della madre.

Ora viene il difficile. Se non l’impossibile.

Parlare con una persona che non vuole farlo è impresa ardua.

“Come ti chiami?”. Mi viene in mente solo questo. Intanto, brucio d’imbarazzo, non sono soltanto i malati a dispiacersi di certe iniziative di parenti e affini, anche io in questo momento scapperei, semplicemente.

“Andrea”. Mi risponde senza far nulla per nascondere l’antipatia. Tra l’altro il suo nome già lo sapevo.

“Mi vuoi raccontare qualcosa?”. Il mio invito non lo scalfisce minimamente.

Una frase in rumeno. La madre, sempre silenziosa, ha detto qualcosa al figlio. Lui abbassa lo sguardo.

“Da un po’ di tempo mi si riempie la testa di voci”. Andrea ha parlato, sempre a testa bassa. L’ordine della madre è stato rispettato.

“Poi si mettono a ridere, ridono, poi piangono”. Non guardo lui, ma il padre e la madre, sua sorella. Il dolore di chi ami ti raggiunge, s’infiltra sotto pelle, diventa il tuo.

La sorella, avrà al massimo una ventina d’anni, è quella più afflitta. Alle pareti del saloncino le foto di lei e il fratello da piccoli, sorridenti, in gioco.

“Io cerco di sta’ bene, ma non ci riesco”.

Il dolore ci fa tornare bambini. Come tutto quello che di ignoto si abbatte sulla nostra vita. Ci ritroviamo analfabeti, spersi, a malapena capaci di reggerci sulle gambe. Forse solo consapevoli, drammaticamente, di quanto effimera sia la nostra condizione. E il viso, quando sprofondiamo in questa lucidità dolorosa, torna alla sua espressione più ingenua, infantile, di chi nulla sa di se stesso e il mondo. Un’espressione di candido terrore.

Ecco l’atto finale. Estremo.

Andrea mi chiede aiuto. Non con le parole. A lacrime. Con gli occhi mi si aggrappa addosso, un naufrago che non vuole essere trascinato via dalla corrente.

Anche questo momento mi è noto, ho imparato a conoscerlo, e a temerlo. Perché chi sta male, chi sta male nella testa, alla fine si arrende, e chiede aiuto, anche a chi non è in grado di darglielo.

Anche a uno come me, che nulla può fare, oltre a disperarsi assieme a un padre e una madre, una sorella, dentro una povera casa.

Braccia d’uomo e viso di bambino
Andrea ha la mente massacrata
vorrebbe fuggire nel suo passato
quando nessuna voce lo inseguiva
e il tempo era bello e tutto si poteva
con gli amici e fare l’amore
con lei che rideva al suo italiano
e lui dentro di lei era felice
e tutto godeva in quel momento.

Ora vive solo con le sue voci
accalcate nella testa
senza salvezza da braccare
a scontare la sua morte in vita
di chi da malato resta
murato dentro la sua casa
a sperare il niente accadere.

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