Porsi la questione dell’eticità della Resistenza comporta quasi irrimediabilmente il rischio dello scadimento nella retorica. Ce lo ricordano I piccoli maestri di Luigi Meneghello: «Non si può domandare: “Ciò, che ethos gavìo vialtri?”».

Per evitare tale rischio può forse essere utile affrontare il tema a partire non dall’esemplarità della Resistenza, ma dalla sua strutturale difficoltà, come ricostruito con cura, tra gli altri, dallo storico Santo Peli.

Il nodo della scelta

Questo in quanto l’ethos non consiste in un luminoso bagaglio di valori e principi morali dato a priori, ai quali partigiane e partigiani avrebbero attinto per nobilitare le proprie azioni. Piuttosto, e qui sì sta la sua esemplarità, l’eticità della Resistenza si esprime nella difficile esperienza di attraversare una situazione – che spesso si subisce, poiché, ricorda Rossana Rossanda, «la storia girava sui suoi cardini e noi con lei» – nella quale quei principi sono tutti da ricostruire.

Una ricostruzione che comporta, in primis, una trasformazione di sé, che attesta come la scelta per la lotta partigiana non avvenga come sbocco naturale e immediato di biografie e idealità pregresse (c’è sempre una distanza da colmare per passare dall’odio per il fascismo alla brigata, ammette Italo Calvino), ma dipenda spesso dall’incontro con condizioni storiche che accadono e che non si possono inventare. Ecco perché padre Camillo De Piaz può dire che «la Resistenza nelle nostre condizioni non si poteva non fare». Ma, continua, «che cosa vi può essere di più grande, di più storicamente ed esistenzialmente pregnante, di una necessità che assume la dimensione di una scelta?». Il punto centrale sta proprio qui, nella relazione tra necessità e libertà, e nel nodo che le lega: la scelta.

La frattura

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Ma quali sono queste condizioni? Sono quelle emerse nella frattura apertasi con l’8 settembre 1943, nel suo intreccio di sospensione, di attesa interrogativa, ma anche di accelerazione verso una necessaria e lucida presa di coscienza sul presente. Calvino comprime questi sentimenti in una vivida immagine: «il ritmo delle cose era cambiato, troppo lenti i sensi, troppo lenti i pensieri. Da un momento all’altro, cambiato».

L’8 settembre, infatti, si presenta come l’irruzione di un evento che disarticola completamente sia la logica della guerra sia la vita stessa di milioni di cittadini, fossero questi militari o civili. Carlo Dionisotti definisce l’armistizio come un giorno rispetto al quale c’è un prima e un dopo: «un nodo che non si sfila (…), perché dentro e al di là di un evento comune, milioni di italiani hanno, in proprio, (legato, ndr) a quel giorno una pausa e una svolta nella loro singola vita».

L’8 settembre, continua Dionisotti, erompe nella situazione storica italiana come una «rivoluzione angosciosa», come uno strappo aperto tra «perdite enormi ma forse inevitabili». Ma l’angoscia, rammenta il Chiodi de Il partigiano Johnny, «è la categoria del possibile. Da una parte (…) ti ributta sul tuo essere, e te ne viene amarezza, ma d’altra parte essa è il necessario (…) salto verso il futuro». È in questa condizione che il futuro partigiano esperisce il disordine introdotto dall’armistizio. Ne vive la difficoltà e il dolore morale: «mi spaventano quelli che dicono di avere sempre capito tutto, che continuano a capire tutto. Capire l’8 settembre non era facile!» sottolinea con forza Nuto Revelli. Ma ne percepisce anche le potenzialità di un nuovo inizio, attraverso la negazione del vacuo e violento ordine fascista.

I due specchi

L’emergere del soggetto resistente prende infatti le mosse da un volontario mettersi fuori legge: il partigiano è infatti clandestino in un paese che non riconosce più e che non permette lui nessuna possibilità di riconoscimento etico-politico. Possiamo immaginare il soggetto resistente come inserito tra due specchi che si guardano e lo riflettono. Due specchi che, però, ha entrambi infranto.

L’uno, quello della legge, in quanto il partigiano non riconosce più il diritto incarnato dalle istituzioni fasciste. L’altro, quello dell’etica, in quanto il partigiano deve, in primis, autosospendersi dall’ethos dei padri e delle madri, ovvero da quella moralità condivisa che non ha impedito l’ascesa del fascismo e ha condotto allo sfacelo della guerra.

Divenire padri dei propri padri è infatti l’indicazione etica, al limite del paradosso, data da Giaime Pintor alla sua generazione. Due specchi che, però, sono entrambi necessari affinché qualsiasi soggetto possa avere una consistenza sia individuale sia collettiva. Non esistiamo, infatti, senza il loro duplice rispecchiamento, che ci anima e ci rende liberi. E il compito del partigiano sarà infatti quello di ricostruirli entrambi. Non in forza di una sua costitutiva superiorità morale o eroismo. Ma proprio grazie all’attraversamento, sofferto e difficile, nella loro assenza.

L’accesso a questa condizione di estraneità – si pensi ai Banditi di Pietro Chiodi o al Terrorista di Gianfranco De Bosio – è il frutto di una scelta radicale, ovvero che sta alla radice della stessa soggettività partigiana. Non una scelta tra diverse opzioni, tra diversi valori e principi, ma una scelta fondativa, che permette ogni singola altra decisione puntuale. Una scelta che incarna la stessa novità della situazione: lo scegliere di voler tornare a scegliere sulla propria esistenza, dopo l’assuefazione all’obbedienza del ventennio fascista e l’assopimento delle coscienze da questa comportato.

Ne va dell’esistenza

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È Primo Levi che mette in evidenza l’inesistenza stessa della dimensione della scelta all’interno del paradigma totalitario, la riemersione della quale – e qui sta la novità comportata dall’8 settembre – avviene nell’esperienza resistenziale, per l’autore anticipata e preparata dallo studio della chimica: «Era ogni volta una scelta, un deliberare; un’impresa matura e responsabile, a cui il fascismo non ci aveva preparati, e che emanava un buon odore asciutto e pulito». Una scelta che nasce come una frattura nella coscienza individuale, spesso vissuta in solitudine, ma che trova presto un riconoscimento corale. Al di là delle singole motivazioni che spingono a scegliere – siano queste di carattere politico, morale, economico, esistenziale o di semplice opportunismo – ciò che specifica la scelta per la Resistenza è l’investimento del soggetto nella sua totalità, poiché ne va delle stesse condizioni di possibilità dell’esistenza umana.

La scelta del partigiano – che spesso scaturisce nella quotidianità: «singolare, questa tremenda libertà di scelta nelle massime cose, questa via tracciata nelle minime», scrive Arturo Carlo Jemolo nel 1945 – acquisisce pieno significato solo se connessa all’urgenza della situazione, nella quale, puntualizza sempre Dionisotti nel 1944, si decide «non di un modo qualsiasi d’esistere ma dell’esistenza stessa (…). Questa, se mai altra, è la guerra onde può attendersi l’uomo».

Qui, forse, agisce la più intima dimensione etica della Resistenza, ovvero la volontà di trovare in ogni condizione, anche la più difficile e violenta, la modalità di essere fedeli a una scelta che non fa appello all’adesione a un’istituzione nella quale ci si riconosce, ma che investe il soggetto nella sua interezza, che lo dilacera – la scelta è «chiara e difficile», nota lucidamente Claudio Pavone –, ma che allo stesso tempo lo conduce finalmente a se stesso, dando compimento pieno alla sua dignità e sostanza umana. Una sostanza che non è diversa da quella del fascista in quanto, se così fosse, il partigiano sarebbe un super uomo o un altro uomo. Il partigiano, scrive Andrea Zanzotto, «avviene e viene», non è un soggetto altro, già dato, ma si plasma nella stessa sostanza umana che condivide con il fascista. Si strappa da sé, come lo Schiavo che si desta di Michelangelo, dal medesimo marmo innervato di ingiustizia.

La modalità d’azione

Cosa li differenzia (una differenza che è assoluta, come «un sacramento», scrive Luigi Meneghello, ma minima)? La modalità di azione: il resistente smette di essere fascista – non nasce diverso dal fascista – quando sceglie di scegliere in ogni sua azione di non agire più come un fascista e quindi di non essere più, in quell’istante, tale. Qui sta la differenza pratica, etica, della sua antropologia. Una differenza che non è acquisita una volta per tutte, ma che deve in ogni azione essere confermata, proprio perché la coscienza, come puntualizza Paul Ricœur, non è un dato, ma un compito. Che si esprime, nella forma più alta e drammatica, nella gestione in proprio e responsabile, da fuorilegge, della violenza – e non sorretta da un giuramento nei confronti di uno stato, come la Repubblica di Salò, che ne mantiene il monopolio.

Una gestione accompagnata sia dal dolore e dallo spavento della sua esperienza – esemplari su questo le pagine di Emanuele Artom – sia dal tentativo di non farsene travolgere o sedurre; ma di limitarla il più possibile, nella convinzione che la violenza è sì necessaria per inaugurare una nuova forma di politica, ma ne è, parimenti, l’esatto opposto. Una necessità, quindi, che va mutata di segno. E nella consapevolezza di questa generazione per contrasto si ricostruiscono i due specchi del diritto e dell’etica, lascito più alto della Resistenza nella delineazione della futura mentalità costituente.

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